da Orlando furioso

Ludovico Ariosto

Astolfo sulla luna
 
CANTO TRENTESIMOQUARTO

Con accoglienza grata il cavalliero
fu dai santi alloggiato in una stanza;
fu provisto in un’altra al suo destriero
di buona biada, che gli fu a bastanza.
De’ frutti a lui del paradiso diero,
di tal sapor, ch’a suo giudicio, sanza
scusa non sono i duo primi parenti,
se per quei fur sí poco ubbidienti.

Poi ch’a natura il duca aventuroso
satisfece di quel che se le debbe,
come col cibo, cosí col riposo,
che tutti e tutti i commodi quivi ebbe;
lasciando giá l’Aurora il vecchio sposo,
ch’ancor per lunga etá mai non rincrebbe,
si vide incontra ne l’uscir del letto
il discipul da Dio tanto diletto;

che lo prese per mano, e seco scórse
di molte cose di silenzio degne:
e poi disse: — Figliuol, tu non sai forse
che in Francia accada, ancor che tu ne vegne.
Sappi che ’l vostro Orlando, perché torse
dal camin dritto le commesse insegne,
è punito da Dio, che piú s’accende
contra chi egli ama piú, quando s’offende.

Il vostro Orlando, a cui nascendo diede
somma possanza Dio con sommo ardire,
e fuor de l’uman uso gli concede
che ferro alcun non lo può mai ferire;
perché a difesa di sua santa fede
cosí voluto l’ha constituire,
come Sansone incontra a’ Filistei
constituí a difesa degli Ebrei:

renduto ha il vostro Orlando al suo Signore
di tanti benefici iniquo merto;
che quanto aver piú lo dovea in favore,
n’è stato il fedel popul piú deserto.
Sí accecato l’avea l’incesto amore
d’una pagana, ch’avea giá sofferto
due volte e piú venire empio e crudele,
per dar la morte al suo cugin fedele.

E Dio per questo fa ch’egli va folle,
e mostra nudo il ventre, il petto e il fianco;
e l’intelletto sí gli offusca e tolle,
che non può altrui conoscere, e sé manco.
A questa guisa si legge che volle
Nabuccodonosor Dio punir anco,
che sette anni il mandò di furor pieno,
sí che, qual bue, pasceva l’erba e il fieno.

Ma perch’assai minor del paladino,
che di Nabucco, è stato pur l’eccesso,
sol di tre mesi dal voler divino
a purgar questo error termine è messo.
Né ad altro effetto per tanto camino
salir qua su t’ha il Redentor concesso,
se non perché da noi modo tu apprenda,
come ad Orlando il suo senno si renda.

Gli è ver che ti bisogna altro vïaggio
far meco, e tutta abbandonar la terra.
Nel cerchio de la luna a menar t’aggio,
che dei pianeti a noi piú prossima erra,
perché la medicina che può saggio
rendere Orlando, lá dentro si serra.
Come la luna questa notte sia
sopra noi giunta, ci porremo in via. —

Di questo e d’altre cose fu diffuso
il parlar de l’apostolo quel giorno.
Ma poi che ’l sol s’ebbe nel mar rinchiuso,
e sopra lor levò la luna il corno,
un carro apparecchiòsi, ch’era ad uso
d’andar scorrendo per quei cieli intorno:
quel giá ne le montagne di Giudea
da’ mortali occhi Elia levato avea.

Quattro destrier via piú che fiamma rossi
al giogo il santo evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando il carro, per l’aria levossi,
e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse;
che ’l vecchio fe’ miracolosamente,
che, mentre lo passar, non era ardente,

Tutta la sfera varcano del fuoco,
et indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la piú parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch’in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.

Quivi ebbe Astolfo doppia maraviglia:
che quel paese appresso era sí grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.

Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono lá su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le piú magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ampie e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.

Non stette il duca a ricercare il tutto;
che lá non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, lá si raguna.

Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è lá su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giú divora:
lá su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la piú parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giú perdesti mai,
lá su salendo ritrovar potrai.

Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone antiche
e degli Assirii e de la terra lida,
e de’ Persi e de’ Greci, che giá furo
incliti, et or n’è quasi il nome oscuro.

Ami d’oro e d’argento appresso vede
in una massa, ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
et ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si fanno.

Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
vede c’han forma i mal seguiti amori.
V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,
l’autoritá ch’ai suoi danno i signori.
I mantici ch’intorno han pieni i greppi,
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.

Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che si mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l’opra:
poi vide boccie rotte di piú sorti,
ch’era il servir de le misere corti.

Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
— L’elemosina è (dice) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. —
Di varii fiori ad un gran monte passa,
ch’ebbe giá buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Constantino al buon Silvestro fece.

Vide gran copia di panie con visco,
ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sará, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenzie nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giú, né se ne parte mai.

Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch’egli giá avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par si averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non fèrse;
io dico il senno: e n’era quivi un monte,
solo assai piú che l’altre cose conte.

Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual piú, qual men capace, atte a quell’uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso:
e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.

E cosí tutte l’altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto piú maravigliar lo fenno
molti ch’egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantitá n’era in quel loco.

Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, richezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
et altri in altro che piú d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.

Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,
e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse
ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma ch’uno error che fece poi, fu quello
ch’un’altra volta gli levò il cervello.

La piú capace e piena ampolla, ov’era
Il senno che solea far savio il conte,
Astolfo tolle; e non è sí leggiera,
come stimò, con l’altre essendo a monte.
Prima che ’l paladin da quella sfera
piena di luce alle piú basse smonte,
menato fu da l’apostolo santo
in un palagio ov’era un fiume a canto;

ch’ogni sua stanza avea piena di velli
di lin, di seta, di coton, di lana,
tinti in varii colori e brutti e belli.
Nel primo chiostro una femina cana
fila a un aspo traea da tutti quelli,
come veggián l’estate la villana
traer dai bachi le bagnate spoglie,
quando la nuova seta si raccoglie.

V’è chi, finito un vello, rimettendo
ne viene un altro, e chi ne porta altronde:
un’altra de le filze va scegliendo
il bel dal brutto che quella confonde.
— Che lavor si fa qui, ch’io non l’intendo? —
dice a Giovanni Astolfo; e quel risponde:
— Le vecchie son le Parche, che con tali
stami filano vite a voi mortali.

Quanto dura un de’ velli, tanto dura
l’umana vita, e non di piú un momento.
Qui tien l’occhio e la Morte e la Natura,
per saper l’ora ch’un debba esser spento.
Sceglier le belle fila ha l’altra cura,
perché si tesson poi per ornamento
del paradiso; e dei piú brutti stami
si fan per li dannati aspri legami. —

Di tutti i velli ch’erano giá messi
in aspo, e scelti a farne altro lavoro,
erano in brevi piastre i nomi impressi,
altri di ferro, altri d’argento o d’oro:
e poi fatti n’avean cumuli spessi,
de’ quali, senza mai farvi ristoro,
portarne via non si vedea mai stanco
un vecchio, e ritornar sempre per anco.

Era quel vecchio sí espedito e snello,
che per correr parea che fosse nato;
e da quel monte il lembo del mantello
portava pien del nome altrui segnato.
Ove n’andava, e perché facea quello,
ne l’altro canto vi sará narrato,
se d’averne piacer segno farete
con quella grata udienza che solete.


 
CANTO TRENTESIMOQUINTO

Chi salirá per me, madonna, in cielo
a riportarne il mio perduto ingegno?
che, poi ch’uscí da’ bei vostri occhi il telo
che ’l cor mi fisse, ognior perdendo vegno.
Né di tanta iattura mi querelo,
pur che non cresca, ma stia a questo segno;
ch’io dubito, se piú si va sciemando,
di venir tal, qual ho descritto Orlando.

Per riaver l’ingegno mio m’è aviso
che non bisogna che per l’aria io poggi
nel cerchio de la luna o in paradiso;
che ’l mio non credo che tanto alto alloggi.
Ne’ bei vostri occhi e nel sereno viso,
nel sen d’avorio e alabastrini poggi
se ne va errando; et io con queste labbia
lo corrò, se vi par ch’io lo rïabbia.

Per gli ampli tetti andava il paladino
tutte mirando le future vite,
poi ch’ebbe visto sul fatal molino
volgersi quelle ch’erano giá ordite:
e scorse un vello che piú che d’or fino
splender parea; né sarian gemme trite,
s’in filo si tirassero con arte,
da comparargli alla millesma parte.

Mirabilmente il bel vello gli piacque,
che tra infiniti paragon non ebbe;
e di sapere alto disio gli nacque,
quando sará tal vita, e a chi si debbe.
L’evangelista nulla gliene tacque:
che venti anni principio prima avrebbe
che col .M. e col .D. fosse notato
l’anno corrente dal Verbo incarnato.

E come di splendore e di beltade
quel vello non avea simile o pare,
cosí saria la fortunata etade
che dovea uscirne al mondo singulare;
perché tutte le grazie inclite e rade
ch’alma Natura, o proprio studio dare,
o benigna Fortuna ad uomo puote,
avrá in perpetua et infallibil dote.

— Del re de’ fiumi tra l’altiere corna
or siede umil (diceagli) e piccol borgo:
dinanzi il Po, di dietro gli soggiorna
d’alta palude un nebuloso gorgo;
che, volgendosi gli anni, la piú adorna
di tutte le cittá d’Italia scorgo,
non pur di mura e d’ampli tetti regi,
ma di bei studi e di costumi egregi.

Tanta esaltazione e cosí presta,
non fortuita o d’aventura casca;
ma l’ha ordinata il ciel, perché sia questa
degna in che l’uom di ch’io ti parlo, nasca:
che, dove il frutto ha da venir, s’inesta
e con studio si fa crescer la frasca;
e l’artefice l’oro affinar suole,
in che legar gemma di pregio vuole.

Né sí leggiadra né sí bella veste
unque ebbe altr’alma in quel terrestre regno;
e raro è sceso e scenderá da queste
sfere superne un spirito sí degno,
come per farne Ippolito da Este
n’have l’eterna mente alto disegno.
Ippolito da Este sará detto
l’uomo a chi Dio sí ricco dono ha eletto.

Quegli ornamenti che divisi in molti,
a molti basterian per tutti ornarli,
in suo ornamento avrá tutti raccolti
costui, di c’hai voluto ch’io ti parli.
Le virtudi per lui, per lui soffolti
saran gli studi; e s’io vorrò narrar li
alti suoi merti, al fin son sí lontano,
Ch’Orlando il senno aspetterebbe invano. —

Cosí venía l’imitator di Cristo
ragionando col duca: e poi che tutte
le stanze del gran luogo ebbono visto,
onde l’umane vite eran condutte,
sul fiume usciro, che d’arena misto
con l’onde discorrea turbide e brutte;
e vi trovar quel vecchio in su la riva,
che con gl’impressi nomi vi veniva.

Non so se vi sia a mente, io dico quello
ch’al fin de l’altro canto vi lasciai,
vecchio di faccia, e sí di membra snello,
che d’ogni cervio è piú veloce assai.
Degli altrui nomi egli si empia il mantello;
scemava il monte, e non finiva mai:
et in quel fiume che Lete si noma,
scarcava, anzi perdea la ricca soma.

Dico che, come arriva in su la sponda
del fiume, quel prodigo vecchio scuote
il lembo pieno, e ne la turbida onda
tutte lascia cader l’impresse note.
Un numer senza fin se ne profonda,
ch’un minimo uso aver non se ne puote;
e di cento migliaia che l’arena
sul fondo involve, un se ne serva a pena.

Lungo e d’intorno quel fiume volando
givano corvi et avidi avoltori,
mulacchie e varii augelli, che gridando
facean discordi strepiti e romori;
et alla preda correan tutti, quando
sparger vedean gli amplissimi tesori:
e chi nel becco, e chi ne l’ugna torta
ne prende; ma lontan poco li porta.

Come vogliono alzar per l’aria i voli,
non han poi forza che ’l peso sostegna;
sí che convien che Lete pur involi
de’ ricchi nomi la memoria degna.
Fra tanti augelli son duo cigni soli,
bianchi, Signor, come è la vostra insegna,
che vengon lieti riportando in bocca
sicuramente il nome che lor tocca.

Cosí contra i pensieri empi e maligni
del vecchio che donar li vorria al fiume,
alcun ne salvan gli augelli benigni:
tutto l’avanzo oblivïon consume.
Or se ne van notando i sacri cigni,
et or per l’aria battendo le piume,
fin che presso alla ripa del fiume empio
trovano un colle, e sopra il colle un tempio.

All’Immortalitade il luogo è sacro,
ove una bella ninfa giú del colle
viene alla ripa del leteo lavacro,
e di bocca dei cigni i nomi tolle;
e quelli affige intorno al simulacro
ch’in mezzo il tempio una colonna estolle:
quivi li sacra, e ne fa tal governo,
che vi si pôn veder tutti in eterno.

Chi sia quel vecchio, e perché tutti al rio
senza alcun frutto i bei nomi dispensi,
e degli augelli, e di quel luogo pio
onde la bella ninfa al fiume viensi,
aveva Astolfo di saper desio
i gran misteri e gl’incogniti sensi;
e domandò di tutte queste cose
l’uomo di Dio, che cosí gli rispose:

— Tu déi saper che non si muove fronda
lá giú, che segno qui non se ne faccia.
Ogni effetto convien che corrisponda
in terra e in ciel, ma con diversa faccia.
Quel vecchio, la cui barba il petto inonda,
veloce sí che mai nulla l’impaccia,
gli effetti pari e la medesima opra
che ’l Tempo fa lá giú, fa qui di sopra.

Volte che son le fila in su la ruota,
lá giú la vita umana arriva al fine.
La fama lá, qui ne riman la nota;
ch’immortali sariano ambe e divine,
se non che qui quel da la irsuta gota,
e lá giú il Tempo ognior ne fa rapine.
Questi le getta, come vedi, al rio;
e quel l’immerge ne l’eterno oblio.

E come qua su i corvi e gli avoltori
e le mulacchie e gli altri varii augelli
s’affaticano tutti per trar fuori
de l’acqua i nomi che veggion piú belli:
cosí lá giú ruffiani, adulatori,
buffon, cinedi, accusatori, e quelli
che viveno alle corti e che vi sono
piú grati assai che ’l virtuoso e ’l buono,

e son chiamati cortigian gentili,
perché sanno imitar l’asino e ’l ciacco;
de’ lor signor, tratto che n’abbia i fili
la giusta Parca, anzi Venere e Bacco,
questi di ch’io ti dico, inerti e vili,
nati solo ad empir di cibo il sacco,
portano in bocca qualche giorno il nome;
poi ne l’oblio lascian cader le some.

Ma come i cigni che cantando lieti
rendeno salve le medaglie al tempio,
cosí gli uomini degni da’ poeti
son tolti da l’oblio, piú che morte empio.
Oh bene accorti principi e discreti,
che seguite di Cesare l’esempio,
e gli scrittor vi fate amici, donde
non avete a temer di Lete l’onde!

Son, come i cigni, anco i poeti rari,
poeti che non sian del nome indegni;
sí perché il ciel degli uomini preclari
non pate mai che troppa copia regni,
sí per gran colpa dei signori avari
che lascian mendicare i sacri ingegni;
che le virtú premendo, et esaltando
i vizii, caccian le buone arti in bando.

Credi che Dio questi ignoranti ha privi
de lo ’ntelletto, e loro offusca i lumi;
che de la poesia gli ha fatto schivi,
acciò che morte il tutto ne consumi.
Oltre che del sepolcro uscirian vivi,
ancor ch’avesser tutti i rei costumi,
pur che sapesson farsi amica Cirra,
piú grato odore avrian che nardo o mirra.

Non sí pietoso Enea, né forte Achille
fu, come è fama, né sí fiero Ettorre;
e ne son stati e mille e mille e mille
che lor si puon con veritá anteporre:
ma i donati palazzi e le gran ville
dai descendenti lor, gli ha fatto porre
in questi senza fin sublimi onori
da l’onorate man degli scrittori.

Non fu sí santo né benigno Augusto
come la tuba di Virgilio suona.
L’aver avuto in poesia buon gusto
la proscrizion iniqua gli perdona.
Nessun sapria se Neron fosse ingiusto,
né sua fama saria forse men buona,
avesse avuto e terra e ciel nimici,
se gli scrittor sapea tenersi amici.

Omero Agamennón vittorïoso,
e fe’ i Troian parer vili et inerti;
e che Penelopea fida al suo sposo
dai Prochi mille oltraggi avea sofferti.
E se tu vuoi che ’l ver non ti sia ascoso,
tutta al contrario l’istoria converti:
che i Greci rotti, e che Troia vittrice,
e che Penelopea fu meretrice.

Da l’altra parte odi che fama lascia
Elissa, ch’ebbe il cor tanto pudico;
che riputata viene una bagascia,
solo perché Maron non le fu amico.
Non ti maravigliar ch’io n’abbia ambascia,
e se di ciò diffusamente io dico.
Gli scrittori amo, e fo il debito mio;
ch’al vostro mondo fui scrittore anch’io.

E sopra tutti gli altri io feci acquisto
che non mi può levar tempo né morte:
e ben convenne al mio lodato Cristo
rendermi guidardon di sí gran sorte.
Duolmi di quei che sono al tempo tristo,
quando la cortesia chiuso ha le porte;
che con pallido viso e macro e asciutto
la notte e ’l dí vi picchian senza frutto.

Sí che continuando il primo detto,
sono i poeti e gli studiosi pochi;
che dove non han pasco né ricetto,
insin le fere abbandonano i lochi. —
Cosí dicendo il vecchio benedetto
gli occhi infiammò, che parveno duo fuochi;
poi volto al duca con un saggio riso
tornò sereno il conturbato viso.