Quattro poesie

Dario Bellezza

da Morte segreta (1976)

E abbandono morte. Giocattolo di Dio.
Le muse si sveltiscono solo se andate cose
rigirano, sezionando in dolore e confessione,
oscillando fra tenere immagini e pensiero
lucido di ieri, friabile rendendo la memoria
delle realtà impossibile, quelle mai volute
e tutte assoldate al vizio del ricordo.
Le trapassate entità ingiuste e invivibili
che fecero di me un ragazzo come tanti e ora
un morto che cammina, un fiato eterno di pietà
e tristezza, trascinandomi un corpo-cadavere
che di mattina alzo e vesto, rantolo per casa,
chiudo al gabinetto, ascolto nelle sue chiacchiere
insulse e quotidiane, chiedendo udienza alle muse
ancora con ironia come una pianta secca
dai fiori profumati, chissà perché. Dentro
il cuore si agita invano la parola chiave, morte,
morte terrena, morte eterna, ed è il corpo trionfante
bestia che si accalda a dimostrarlo in attesa
di diventare freddo come un marmo.
Questo corpo che vesto e nutro e lavo
e accordo ai separati corpi altrui, costringo ad amare,
manometto, chiedo il perdono della sua putrefazione
perenne in una erezione instabile e impotente, sterile,
senza figli severi e solari per confortare vecchiaia.
Tutto questo decomposto, gracile corpo cadavere
devo affaticarlo per sbiancare una notte senza insonnia
uncinato da pasticche velenose; cuori diabolici nel letto
agitano la loro bandiera nevrotica. “Anche tu sei dei nostri
caro, scegli l’orgasmo che vuoi. Ti aspettiamo impazienti
addio!” I morti, gli strabilianti morti vivendo nei sogni
li terrorizzano fino al delirio della più enorme insonnia
e solo le botte dell’infanzia mi placano, giacendo
senza vita lontano dal centro della mia vita.
“Non urlare, Dario non urlare, sei pazzo.
Un vivente melodramma da strapazzo!”
Così diviso da me, osservo il mio cadavere,
ne contemplo le mille epoche sopravvissute
alle illusioni, alla felicità passeggera di un bacio,
preda di sapienti ladroni notturni che sanno
aspettare fino all’ultimo l’estremo rantolo.





da Libro d’amore: “Amore” (1982)

Nella mia notte il pessimo tuo mattino
sul lastrico mentre io vado a dormire
e tu non hai casa. Sei solo nel temporale.

Sì, nel lastrico, i marciapiedi a camminare,
sonno mai dormito per te. Invano io
nel letto e le sudate coperte

e tu mendichi a me piangendo la tua giornata
per accontentare la mia primordiale ferocità.

Che ora costringo il mio cattivo giorno all’aria
fino al castello delle tue ossa che un amante
inglese scrocchia.

Non c’è lutto per te, letto, usate
brande o mutande . . .





Sulla mia vita scatenata non entri
più. Resti in agguato sulla porta

e bussi e pisci piano piano o forte
e quelle visibili righe che dallo scroscio
si formano allegre sotto la fessura
dell’entrata – effimere efemeridi
di un Tempo quando Eros
ci legava e io ti bevevo tutto

Qualcuno inorridisce.  Io tremo
esitando e fingo assente
la mia volontà e non apro.

Ho di te orrore che mi uccida
e pietà.  L’omicidio è
suicidio – sfarzo di povero
matto dal volto ancora adolescente.





Dove riposi io guardo.
Maturo la vendetta e la scaldo
perché si plachi fino all’ultimo
bacio.

Come è diversa la ripetizione!
La fine dell’amore dopo l’amore,
quando il decrepito cuore sa

di poter battere in pace. Che
tranquillo l’aspetta
l’oscuro sonno animale!

Ora che tutto è vizzo e cerchiati
gli occhi non guardano che il vizio,

solo questo tempo di prede-caine
acqueta il canto delle Furie
furibonde di sapersi trascurate –

la sommossa certa orecchiabile
impunita del cazzo
che nelle braghette canta.