da Ablativo
Enrico Testa
la litania dei casi recitata al ginnasio
s’è fatta prognosi postuma dei giorni:
se tutto sommato poco frequentati
– anche colpevolmente, lo ammetto –
i primi due,
tra dativo e accusativo invece
s’è consumato il maggior tempo.
Seguiti dal vocativo
per veglie albe notti,
preghiere a volti muti, ascolti
sempre in duplice tensione:
rivolto altrove e ad altri
o nell’attesa di una chiamata.
Ora vivo all’ablativo
*
quanti ascensori ho già preso fin qui!
di alberghi condomini uffici musei
università biblioteche ospedali
ciascuno diverso dall’altro
per foggia arredo odore e colore:
déco, intarsiati e aperti
sul vano delle scale
o ermetici di metallo lucente,
rapidissimi su per l’erta di un grattacielo
o lenti e cigolanti nel casamento
di una Praga lontana e deserta.
Con la sensazione anche salendo
di muovermi invece verso il basso
in precipitante discesa.
E ogni volta uscendo voltarmi
per controllare se la mia ombra
mi seguisse fedele
oppure, riottosa, dentro rimanesse
adagiata sul quadrato del pavimento
*
Dal molo di Alcantara, percorso in tempi diversi, per lo piú invernali o primaverili ma sempre postumi a qualche festività (bar desolati, poche navi all’attracco, pioggia sottile, il tram 5 in partenza per il suo lungo giro della città) si scorge netta, volgendo le spalle al fiume, la collina dei Prazeres. Qua e là, dietro i fitti cipressi verdescuro, s’intravedono parti del muro di cinta, barlumi di marmo grigio, i tetti di qualche piccolo tempio familiare. Nell’aria umida ogni cosa sembra vicina senza essere però incombente. Una prospettiva uguale rivolta a un luogo simile si ritrova adesso – distante negli anni – in questo parco appena a ridosso del mare. Anche da qui lo sguardo risale su una collina, incontra gli stessi cipressi appena un poco piú chiari, gli scalini che s’inerpicano sulle terrazze, le tombe presumibilmente diverse da quelle solo per alcuni minimi particolari di addobbo o di costruzione. Non è il caso di chiedersi quale luogo dei due spinga al riconoscimento dell’altro. Anche perché il piú antico e il piú noto si lascia ora vedere cosí solo dopo aver visto quello, nello spazio, remoto e straniero. Viene da pensare che il luogo presente conceda il suo senso a chi l’interroga solo sull’arco teso dal movimento che l’unisce all’altrove.
*
sto per i nomi propri
di persona e di luogo
(Giovanni Francesca
Rupanego Calacoto)
per i forse e i qualcosa
per i proverbi,
anche banali o insulsi,
e i modi di dire antichi:
le concrezioni geologiche della lingua
di cui (se mai c’è stato)
s’è perduto l’inventore,
per i mattoni cotti
nella fornace comune
e non per i fragili e raffinati vasi
foggiati dal ceramista solitario
nel suo studio
*
elma in turco significa mela.
Iridescente prisma delle lettere
che riflette separa ricongiunge
anche qui tra mura e minareti
cipressi scuri e costa d’asia
o ragnatelo esile e incerto
che se pure manca la sua cosa
(luce prima o mosca)
ci tiene – tra sbreghi impacci e nodi –
ancora legati insieme
s’è fatta prognosi postuma dei giorni:
se tutto sommato poco frequentati
– anche colpevolmente, lo ammetto –
i primi due,
tra dativo e accusativo invece
s’è consumato il maggior tempo.
Seguiti dal vocativo
per veglie albe notti,
preghiere a volti muti, ascolti
sempre in duplice tensione:
rivolto altrove e ad altri
o nell’attesa di una chiamata.
Ora vivo all’ablativo
*
quanti ascensori ho già preso fin qui!
di alberghi condomini uffici musei
università biblioteche ospedali
ciascuno diverso dall’altro
per foggia arredo odore e colore:
déco, intarsiati e aperti
sul vano delle scale
o ermetici di metallo lucente,
rapidissimi su per l’erta di un grattacielo
o lenti e cigolanti nel casamento
di una Praga lontana e deserta.
Con la sensazione anche salendo
di muovermi invece verso il basso
in precipitante discesa.
E ogni volta uscendo voltarmi
per controllare se la mia ombra
mi seguisse fedele
oppure, riottosa, dentro rimanesse
adagiata sul quadrato del pavimento
*
Dal molo di Alcantara, percorso in tempi diversi, per lo piú invernali o primaverili ma sempre postumi a qualche festività (bar desolati, poche navi all’attracco, pioggia sottile, il tram 5 in partenza per il suo lungo giro della città) si scorge netta, volgendo le spalle al fiume, la collina dei Prazeres. Qua e là, dietro i fitti cipressi verdescuro, s’intravedono parti del muro di cinta, barlumi di marmo grigio, i tetti di qualche piccolo tempio familiare. Nell’aria umida ogni cosa sembra vicina senza essere però incombente. Una prospettiva uguale rivolta a un luogo simile si ritrova adesso – distante negli anni – in questo parco appena a ridosso del mare. Anche da qui lo sguardo risale su una collina, incontra gli stessi cipressi appena un poco piú chiari, gli scalini che s’inerpicano sulle terrazze, le tombe presumibilmente diverse da quelle solo per alcuni minimi particolari di addobbo o di costruzione. Non è il caso di chiedersi quale luogo dei due spinga al riconoscimento dell’altro. Anche perché il piú antico e il piú noto si lascia ora vedere cosí solo dopo aver visto quello, nello spazio, remoto e straniero. Viene da pensare che il luogo presente conceda il suo senso a chi l’interroga solo sull’arco teso dal movimento che l’unisce all’altrove.
*
sto per i nomi propri
di persona e di luogo
(Giovanni Francesca
Rupanego Calacoto)
per i forse e i qualcosa
per i proverbi,
anche banali o insulsi,
e i modi di dire antichi:
le concrezioni geologiche della lingua
di cui (se mai c’è stato)
s’è perduto l’inventore,
per i mattoni cotti
nella fornace comune
e non per i fragili e raffinati vasi
foggiati dal ceramista solitario
nel suo studio
*
elma in turco significa mela.
Iridescente prisma delle lettere
che riflette separa ricongiunge
anche qui tra mura e minareti
cipressi scuri e costa d’asia
o ragnatelo esile e incerto
che se pure manca la sua cosa
(luce prima o mosca)
ci tiene – tra sbreghi impacci e nodi –
ancora legati insieme