La prima risposta la trovo in Bessie Smith:
When it thunders and lightnin', and the wind begins to blow/ There's thousands of people, ain't got no place to go/ And I went and stood up on some high old lonesome hill/ Then looked down on the house where I used to live/ Black water blues done called me to pack my things and go/ 'Cause my house fell down and I can't live there no more.
La canzone è citata nel libro di James Baldwin, The last interview and other conversations, pubblicata nel 2014, che mi fa scoprire Eleanor Paynter, la studiosa e amica che mi ha invitata a trascorrere un periodo a Providence, ospite della Brown University. Nella prima intervista, Baldwin confessa che non ascoltava mai la cantautrice in America ma, in Europa, l’aiutò a riconciliarsi con sé, a rimettere radici. La musica dunque. Nei primi anni, dopo aver lasciato Mogadiscio, la musica somala, melodica e tragica, non mi parlava più. Ma in seguito fu invece proprio la musica, nella distanza, che mi permise di riconnettermi. L’unico possibile ritorno. Penso all’audiocassetta che mio padre mi invia, in cui il poeta Hadrawi narra di aver scritto in prigione con l’inchiostro invisibile del latte un canto in onore della madre, (Hooyooy la’aantaa/ Adduunyadu hubaashii/ Habeen kama baxdeeno/ O madre, senza di te/ Sicuramente il mondo/ non sarebbe uscito dall’oscurità), penso alle somale approdate a Roma dopo il tahriib, ovvero dopo aver attraversato il deserto e il mare, giovani donne per le quali conservare quei versi nella memoria era tanto prezioso, come ne andasse della loro vita stessa, e poi penso al lavoro all’archivio di Roma Tre, dove catalogavo conversazioni, fotografie, pellicole e documenti cancellati dalla memoria pubblica. Ascolto Bessie Smith e penso alle sue parole: sta parlando di un disastro, che quasi l’ha uccisa, lo accetta e cerca di passare oltre. Questa casa invasa dall’acqua, distrutta, guardata dall’alto, mi parla. «Quello che mi manca sono solo i miei legami» scrive Baldwin a proposito del suo esilio volontario in Europa.
Viaggio negli Stati Uniti con mia figlia Yasmin, quando invece vent’anni fa, la prima volta che fui invitata, fatalità proprio a Providence, non riuscii a portarla con me. La allattavo ancora e ricordo il dramma della separazione: l’inverno è rigido nel New England, mi dissero, e come farai a parlare con una neonata legata al petto? Il seno strizzato dal latte in eccesso nei bagni dell’università, io che parlavo a malapena l’inglese. Questo viaggio insieme è una sorta di catarsi, compensazione: ci muoviamo per l’America, dalla costa orientale all’occidentale, ne osserviamo insieme quella che, a tratti, ci appare come un’opulente brutalità. Mi lascio trasportare per le strade di Los Angeles, sul sedile passeggeri di una vecchia Cadillac, presa in prestito da Claire, incontrata molti anni fa a Roma. Ricordo precisamente quando e dove, nel caffè Feltrinelli di Largo Argentina. Al tempo non avevo ancora lasciato l’Italia, anzi, mi ci impegnavo appassionatamente, lavorando come mediatrice culturale, scrivendo e partecipando al dibattito pubblico su migrazione, nuove generazioni e su come il rimosso coloniale influenzasse tutte queste questioni. Guida Yasmin, io non ho mai avuto la patente, Yasmin mi guida verso un flea market dove compriamo un paio di jeans che stanno bene a entrambe, degli orecchini, una giacca, una maglietta per suo fratello, mangiamo tacos a un chiosco messicano, camminiamo a lungo intorno al mitico osservatorio Griffith, e visitiamo la mostra di Camille Claudel al Getty Museum. Il senso del corpo e del mito, il suo rapporto tormentoso con lo scultore Rodin, la follia e insieme il lungo esilio fino alla morte in un manicomio. In Sherazade Goes West, Fatema Mernissi parla della necessità di narrare e rinarrare intese come strategia contro la brutalità: l’autrice crede fermamente nel ruolo del dialogo e dell’immaginazione. La conoscenza da sola non consente, a suo avviso, alla donna di esercitare il suo potere, è solo attraverso il dialogo che ciò può avvenire. Scrivere in Italia per me aveva significato scavare nei racconti orali, storie che mi venivano raccontate durante le lunghe serate trascorse al telefono tra amici e parenti della diaspora, oppure registrate con il nastro magnetico. Potevano essere le vicende intime di donne migranti, oppure giovani di origine eritrea, etiope, capoverdiana, somala, come il mio primo figlio, cresciuti a Roma. Cercavo nelle esistenze che attraversavano la mia, il significato profondo: cosa voleva dire per noi vivere in Italia? Scriverne come un dovere etico e artistico: era necessario far tesoro di ciò che avevo avuto il privilegio di ascoltare. Come scrive Julia Kristeva l’esiliato: Au lieu de s’interroger sur son «etre», il s’interroge sur sa place: «Où suis-je?». Car l’espace qui précupe le jeté, l’exclu, n’est jamais un. Ni homogène, ni totalisable. Mais essentiellement divisible, pliable, catastrophique. La scrittura è obliqua, ma anche ubiqua: in fondo scrivere lo possiamo fare dappertutto. Mi riporta indietro nel tempo. C’è una differenza tra il trasferirsi in un nuovo luogo per scelta e non per forza maggiore; eppure, il lutto che ti porti dentro non è meno doloroso. La mia ossessione era sempre stata quella di rievocare Mogadiscio, il «mio giardino dell’Eden» anche se si trattava di tutt’altro che un paradiso terrestre. «Forse, la vita offre solo la possibilità di scegliere fra il ricordare il giardino e dimenticarlo» scrive Baldwin nella Stanza di Giovanni «Una cosa o l’altra: ci vuole forza per ricordare, ci vuole un altro tipo di forza per dimenticare, ci vuole un eroe per fare le due cose insieme».
L’esiliato non può essere privato della memoria, resistere al memoricidio: attraverso la narrazione ricreiamo la possibilità di annullare la distanza geografica e temporale da ciò che abbiamo vissuto.
Eppure, non ho mai parlato di cosa abbia significato per me lasciare Roma, dopo averci vissuto diciotto anni, cresciuto un figlio e partoriti altri due. Il sangue che, a differenza di quello della guerra vissuta, non arrossava coltelli e fucili, ma aveva dato la nascita.
Una riluttanza dolorosa e una migrazione avvenuta in un’età in cui il carico sulle spalle diventa più pesante e il futuro davanti inesorabilmente più breve, sebbene con il tempo ci affidiamo meno all’intuito, ma ne guadagniamo in saggezza, e il desiderio di rischiare si riduce.
Quando arrivai in Italia, dopo la guerra in Somalia, avevo poco più di vent’anni. L’italiano era la mia lingua madre, un vantaggio ambivalente, poiché ero convinta che coloro che mi circondavano mi avrebbero riconosciuta per quella che ero. La mia voce era esitante e carica di una storia coloniale dimenticata di cui, per una questione in fondo di amore, io ero il frutto. Rimasi oltraggiata e ferita per quel mancato riconoscimento e, forse per questa ragione, presi il coraggio di scrivere. Ma l’Italia, seppur vi abbia resistito per molti anni, mi respingeva: un’afflizione di tradimento e, nell’andarmene, sentivo di essere di nuovo obbligata all’esilio, sebbene questa volta la ragione non fosse la guerra.
«Forse» scrive Baldwin a proposito della decisione di lasciare il suo paese «come diciamo in America, volevo trovare me stesso. Questo è un modo di dire interessante, che io sappia non è usato in lingue di altri popoli, e sicuramente non significa ciò che dice ma tradisce il preoccupante sospetto che qualcosa sia finito nel posto sbagliato». Qualcosa è finito in un posto sbagliato in effetti e l’espressione, a distanza di tanti anni, è entrata nelle altre lingue. Ma cosa significa cercare se stessi? Una verità che solo la distanza ci permette di vedere, escludere un discorso che ci sembra solo nostro, l’unica possibilità di saperci è la distanza da noi stessi, discontinuità, rifuggire da quel brusio del luogo comune che ci imprigiona e allo stesso tempo protegge. Avevo delle amiche somale e italiane come me che si sono trasferite in Italia, chi a Firenze, chi a Bari, chi a Latina, chi a Torino. Mi è capitato di rivederle molti anni dopo, nelle città dalle quali avevano deciso di non spostarsi più e, ciò che mi colpì maggiormente, fu il modo che avevano preso di parlare e comportarsi, come se in quel nuovo luogo ci fossero persino cresciute, adottandone mimeticamente il modo di esprimersi e i rituali. Io le invidiavo, però pensavo che amare, in fondo, forse significa desiderare un altrove, accettare che siamo sempre ospiti in casa nostra, così come nella lingua che parliamo che esisteva prima ed esisterà dopo di noi. Amare comporta un’enorme responsabilità e un enorme rischio. The only war that matters is the war against imagination, scrive Diane di Prima in Revolutionary Letters. L’immaginazione, il giardino dell’Eden dell’impossibile ritorno.
Ricordo la partenza da Roma: avevamo impiegato poco più di una settimana a impacchettare tutto ciò che immaginavamo ci sarebbe servito. Svuotando meticolosamente la casa, dove avevamo vissuto a lungo. Una casa a scomparti, come un treno, le stanze inanellate a catena. Canta Jimmie Rodgers:
Now, when a woman gets the blues, Lord, she hanges her head and cries. But when a man gets the blues, Lord, he grabs the train and rides.
Forse anch’io abbasso la testa e. dentro di me, piango, ma eccolo il nostro treno, a fine agosto, undici anni fa, la macchina piena da scoppiare. Non è stato facile: separare il necessario dal futile, scegliere libri, abiti e oggetti da portarsi dietro, un calore che forse ci avrebbe riscaldati nei primi mesi di esilio. Mi affliggevo, terrorizzata dal destino che attendeva me e i miei figli. Cosa ne sarebbe stato di noi, nelle nuove lingue, mappe e codici? Eravamo entusiasti e un po’ folli, tutti ci osservavano increduli, invidiando amorevolmente la sfrontatezza con cui ci lasciavamo alle spalle il paese. «Vengo a prendere il caffè e un po’ di energia» mi disse un’amica mentre svuotavo e facevo i bagagli e fu una grande consolazione. Tutto questo inscatolare, separare così brusco, persino per me che non conservo mai nulla risultava, allo stesso tempo, liberatorio e doloroso. Ho spesso ripensato al momento in cui ho deciso di partire dall’Italia. La prima volta, la prima volta che ho lasciato la città in cui sono cresciuta ero stata forzata, portando in grembo il mio primo nato, senza farvi ritorno, se non dopo trent’anni. Altre geografie, altri luoghi si erano succeduti, tuttavia era sempre come se qualcosa mi sfuggisse, un frammento, un eco, un dettaglio intimo della memoria. La diaspora, principio su cui si sono fondati i miei primi lavori, è un’emozione, risonanza profonda, una nostalgia che implica una partenza senza ritorno. L’assenza e allo stesso tempo la sete di un futuro folgorante di presenza. Differentemente, come scrive il poeta Joël Des Rosiers, per la nostra condizione è più illuminante il concetto di metaspora, un emblema, il prefisso dal greco meta (dopo, al di là di, con) appoggiato alla metafora botanica della spora e la sua disseminazione ai quattro venti del mondo.
«La métaspora est ce qui mesure la distance entre des êtres intimes et l’intimité inattendue de la distance, qu’elle soit géographique, temporelle ou culturelle. Est une catégorie esthétique, un embleme du Beau expurgé de toutes les entropies identitaires. La metaspora procéde d’une logique d’improvisation de l’espace et du temps, d’une logique de recreation, placée sous le signe du devenir».
Una metafora germinativa, spore sparse ai quattro venti, che rinascono in luoghi non previsti e si innescano nelle esistenze circostanti, vivificandole, non solo la propria, ma anche quella del nuovo mondo in cui si radicano. Eccoci, dunque, in questa condizione esistenziale di metaspora: Bruxelles è assolata quando arriviamo, nel tardo pomeriggio, scoprirò dopo che è una circostanza piuttosto rara, il buio invernale durerà a lungo e il cielo sarà spesso coperto. Buffo pensare al primo momento, quando un luogo, una città ti è sconosciuta e, lentamente, con il passare dei mesi, ogni palazzo, albero, strada, monumento prendono spazio nella tua mappa mentale. Mi era successa la stessa cosa a Roma d’altronde: guidata da un libercolo sui luoghi e i musei, i primi mesi cercavo di ricostruire le mie traiettorie.
C’è una cosa che qui mi piace ricordare e fu quando andai a trovare la poetessa Iolanda Insana, da me venerata: viveva vicino a via del Corso mi sembra, aveva i suoi versi appesi alle cordicelle e mi disse: «Ubah, sentiamoci, quando c’è il sole, andiamo a fare legna”.
s'infossa il passo e traballa l'orizzonte/ con i suoi cumuli di rottami e spazzatura/ e però m'afferro all'aquilone/ e mi lascio alle spalle/ dietro l'altura/ tumuli e fosse comuni /senza alberatura.
Andiamo a fare legna, ogniqualvolta verrà il bel tempo, inventiamo riti, tessiamo nuovamente la tela, sebbene siamo costrette a lasciarci tutto alle spalle. Nei primi mesi a Bruxelles, stanca e arrabbiata con l’Italia, mi rifugiavo in un piccolo studio, separato dalla casa, dove scrivevo ossessivamente, cercando di venirne a capo, osservando un picchio nero con la cresta rossa che persistente martellava un albero vicino. Nella distanza, riuscii a scrivere il Comandante del fiume, in cui Roma appare scompaginata, attraverso il mito e l’erranza di un diciottenne nero che, suo malgrado, in quella città è cresciuto. Nel giardino della casa dai soffitti alti a rue Champs- Elysées coltivavo giacinti, ortensie e rose e c’era un alberello che poi si rivelò prolifico di mele, da cui imparai a fare una torta. Il mio Eden, un giardino segreto, come quello che coltivavo a Roma con il mio primo nato Harun, scavalcando una finestra, un tetto su cui insieme avevamo piantato gelsomini, albicocche e limoni. Bruxelles all’inizio mi sembrava troppo silenziosa e ostile, eppure potevo vedere lontano e la nuova città non mi chiedeva e, allo stesso tempo, riconosceva nulla, soprattutto non reclamava appartenenza. Non è stato facile partire. Migrare significa scomparire dentro se stessi, morire e rinascere, rischiare di diventare invisibili, ovvero, visti altrimenti. Non bastava il cesto biologico dell’orto pieno di broccoletti, radici nere, verze, cavoli, carote gialle rosse e viola, per radicarmi di nuovo. «C’est peut-être qu’une vie en exil» scrive Edward Said «se déroule selon un autre calendrier, moins saisonnier et moins réglementé que la vie “au pays”. L’exil est une vie vécue en dehors d'un ordre habituel. Il est nomade, décentralisé, contrapuntique: et on n'a pas le temps de s'y habituer que sa force bouleversante éclate à nouveau». Mi struggevo in uno smarrimento che, all’inizio, grazie al fatto di essere madre, ho sconfitto. La cura: stabilità di luogo. Andare a prendere i miei figli a scuola, studiare caparbiamente il francese per seguirli nei compiti, profumare la casa d’incenso e preparare il cibo. Danzavo in cucina, osservando, tra padelle e pignatte, i miei movimenti riflessi sulla finestra, felice e allo stesso tempo oppressa dalla mia vulnerabilità e dal peso della responsabilità. Pensavo: forse finirà un giorno questa solitudine di luoghi, la nostalgia di un altrove che è solo illusione. E poi le ostriche al mercato il fine settimana come facevano tutti, il concerto di lingue, il tè alla menta all’hammam, dove una donna marocchina vissuta trenta anni in Calabria mi strofinava la pelle, le manioche e i platani di Matongé, non erano abbastanza. Baldwin sapeva dove era la sua casa: «I rifugi costano caro» scrive «Il prezzo che l’ospite deve pagare è riuscire a illudersi di aver trovato un porto sicuro». Ma io ho mai trovato un porto sicuro? Lontana dall’Italia non avevo più bisogno di legittimarmi. Abbandonare le aspettative editoriali, le dispute, i fallimenti, il razzismo, significava guadagnarne in indipendenza e potere. Non dovevo dimostrare più nulla, né rappresentare nessuno: potevo leggere, scrivere, pensare ciò che più mi aggradava. Bruxelles, paradossalmente, mi aiutava a infrangere il silenzio da cui, alla fine (quando l’entusiasmo è andato calando) mi ero sentita intrappolata in Italia. Come scrive magnificamente Audre Lorde, la trasformazione del silenzio in linguaggio e azione significa rivelare se stesse, un atto carico di pericolo che richiede un enorme coraggio.
Lottare per non fare la fine di Antigone, nella meravigliosa rilettura di Maria Zambrano, sepolta tra le pietre e, nel profondo, sepolta dentro ciascuna di noi. L’eroina della tragedia, non si sarebbe mai data la morte, intuisce la poeta e filosofa spagnola: «E come poteva, Antigone, darsi la morte, lei che non aveva mai disposto della sua vita? Non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi di se stessa».
In quanto donne siamo sempre «fuori luogo», il fuori della donna è qualcosa che non si vuole vedere e piuttosto il mondo esterno preferisce occultare. Io dovevo accorgermi di quello che ero diventata, il mio essere atopica, movimento rizomatico fertile di attesa.
Un’erranza, una geografia del divenire che ingloba multiple appartenenze che non consentono di indugiare nella semplice nostalgia dell’andare e tornare, ma si sviluppa in una circolazione imprevedibile, scavo negli strati della memoria, sia personali che collettivi. La memoria non è lineare, è piena di buchi e inganni, segue un andamento capriccioso, si sofferma su storie nascoste e ossessioni.
Cosa sono divenuta dopo aver lasciato l’Italia? Quattro anni di isolamento in Belgio (le persone si congelano durante l’inverno, le case diventano fortezze sigillate dove solo pochi intimi hanno accesso) e, finalmente, sono partita per la mia prima lunga residenza in America in IOWA. Avevo il mito degli Stati Uniti e, se Baldwin ha scoperto di essere americano a Parigi, io posso dire di aver scoperto di essere europea durante le residenze americane. Da allora il nomadismo è stato incessante. Lontana dai luoghi comuni e conosciuti, si trattava di una continua riconquista, un disorientamento, come a ricostruire ciò che le voci quotidiane non potevano più dirmi, attraverso la forza dell’immaginazione e del desiderio, una geografia dell’erranza che, certo, rinviava a luoghi per me reali e spesso riconoscibili dove avevo risieduto, ma che mi spingeva sempre verso la dimensione del mito. Non avevo più il balsamo consolatorio delle voci che mi donavano la loro storia, ora dovevo districarmi in nuovi spazi, rifugiandomi in archivi e libri per decifrarli, trame del tempo passato che reclamavano presenza. Come parlare qui delle varie residenze che mi hanno aiutata a scrivere? Saint-Nazaire dove lavoravo all’Antigone e studiavo nell’archivio municipale la storia della ricostruzione nel dopoguerra, una storia che non mi apparteneva ma parlava profondamente perché sempre ero ossessionata dalla mia Mogadiscio distrutta davanti agli occhi. Si poteva davvero ricostruire? Oppure Marsiglia, altra città portuale, dove andai con mia figlia, scrissi il racconto le Stazioni della luna, catalizzatore poi del romanzo, scovai le memorie di un vecchio marinaio gibutiano e mi appassionai alla questione degli zoo umani. E forse ancora di più a Stellenbosch, in Sudafrica, per le circostanze eccezionali della pandemia, dove decisi di restare, nonostante gli avvisi avversi e questa parola terrorizzante che aleggiava nell’aria, rempatriation, circondata dai miei personaggi, archivi digitali, il corriere della Somalia, le fotografie, documenti sparsi e, soprattutto, la corrispondenza quotidiana con Ahmed Qasim Ali, ingegnere della generazione di mio padre, diventato non solo mio amatissimo amico di penna, ma fervido sostenitore. Dove sarei dovuta rimpatriarmi io?
«L’amore» come scrive Baldwin «non nasce e finisce come sembriamo credere. L’amore è una battaglia, l’amore è guerra, l’amore è un progresso». L’amore, come l’atto di scrivere per l’apolide, è il tormento di ricominciare sempre daccapo, il dolore legato al viaggio, una sfida contro la brutalità e l’oblio, un dovere etico per proteggere ciò di prezioso che conserviamo nella memoria.