Lezioni di lentezza

Susanna Basso

Illustration by Naï Zakharia

Tradurre è bellissimo in autunno, quando le giornate diventano più corte e accendo la luce sul mio libro sempre prima. La luce naturale un po' mi deconcentra; illumina anche il resto della stanza, tutti gli altri libri, i mobili le tende. Qui sotto invece, in questo cerchio chiaro che mi isola, siamo davvero sole, le frasi e io. Per ogni libro che ho tradotto potrei raccontare che cosa intanto succedeva nella stanza e fuori, nella vita. Sarebbe, immagino, di scarso interesse, eppure la mia vita ha accompagnato la vita delle parole che ho cercato, e non è stato, per me, cosa da poco tenerla sempre a bada.

Ho tradotto da giovane in una stanzetta bianca senza armadio, su un tavolo nudo e accanto al telefono che mi interrompeva, mi trascinava fuori, alle mille aspettative che chiedevo agli altri di avere su di me. Dovevo ancora accettare la lentezza che la traduzione impone; ricordo che cercavo di escogitare sistemi per accelerare i tempi. Ero convinta che l'esperienza mi avrebbe reso più veloce. Mi spazientivo, spesso. Trovavo quasi ogni testo ripetitivo, quasi ogni autore un po' prolisso.

Ho poi scoperto che l'esperienza non accelera affatto i tempi del lavoro, ma cura l'impazienza e il bisogno che il telefono squilli.

Allora, ricordo, calavo sulle lettere delle sorelle Brontë la mia lingua fresca di studi e piena di entusiasmi letterari. Sperimentavo la difficoltà di combinare la disinvoltura di semplici lettere tra sorelle e amici e l'intensa ricchezza di quelle donne straordinariamente prigioniere e libere.

Tesoro mio,

La tua lettera mi ha resa felice oltre ogni dire: avere notizie da casa è una gioia concreta, genuina; una gioia da tenere in serbo fino a sera quando si ha un momento di calma e di riposo per poterla gustare pienamente. Scrivi tutte le volte che puoi. Vorrei essere a casa. Vorrei lavorare in un mulino. Vorrei disporre di libertà mentale. Vorrei disfarmi del pesante controllo che grava su di me. Ma verranno le vacanze. Corragio [sic]. (Charlotte Brontë a Emily, luglio1839).


Piano piano, imparavo che occuparsi di una preposizione è difficile; bisogna saperla ascoltare, bisogna rispettarla e cercare di non invaderla. Sperimentavo sulla scrittura con una passione a volte un po' irruente, secondo il mio sguardo di oggi.

Ho sentito una volta un autore, incontrato dopo aver tradotto un suo bel romanzo, raccontare la propria esperienza di traduttore dal russo dicendo che, in quel lavoro, si era sentito come un chirurgo costretto a operare indossando guanti da giardinaggio. A lavorare insomma con il bisogno di precisione assoluta, ma con strumenti che tutto promettono, tranne l'esattezza. L'autore era Michael Frayn, e la traduzione cui faceva riferimento il teatro di Cechov. Pensai allora, e continuo a pensare, che quei guanti goffi da giardinaggio senz'altro impediranno la scioltezza e l'agilità, ma che è errore anche più grande sfilarseli spensieratamente e credere, solo per questo, di essere diventati chirurgi. Un po' di imbarazzo ci vuole, di fronte al testo di un altro, meglio non dimenticarlo. Ma anche il cauto imbarazzo è un dono che può venire col tempo.

Prima, si lavora con la passione, l'intuito, l'esuberanza. E, se si è fortunati, sotto la guida di generosi maestri. Così, tradussi la lingua disincantata e imperterrita di Ambrose Bierce, nel suo piccolo pamphlet contro i pericoli del valzer, dal titolo The Dance of Death (La Danza della Morte).

Ricordo che mi sedevo alla scrivania e ballavo da ferma il suo valzer scabroso con intenso divertimento; sentivo il fascino di quella scrittura tagliente e sontuosa e ne seguivo i lunghi periodi fitti di subordinate, quasi come la prosa di Edgar Allan Poe.

Lo avevo osservato mentre ballava il valzer con una bella giovane, anch'essa di mia conoscenza, ed ero stato colpito dal modo in cui la serrava tra le braccia, stringendosela letteralmente al petto e fondendo in un abbraccio incantevole per ogni spettatore le morbide forme di lei. Avevano volteggiato intrecciandosi in un angolo della sala per dieci minuti buoni – la lussuria accendeva negli occhi di lui lampi di furore e illanguidiva quelli di lei – finché la fanciulla non parve sul punto di perdere i sensi del tutto e di scivolare a terra, una volta libera dalla stretta del cavaliere che fu però tanto accorto da offrirle il sostegno del braccio e della spalla.


Mi entusiasmavo nel rimediare sinonimi, spesso convinta che la ricchezza risiedesse della varietà lessicale. Per fortuna, ogni scrittura ha un suo peso specifico che quasi sempre si impone sullo sfarfallare a vuoto del traduttore poco esperto. Mentre mi concentravo su aggettivi e locuzioni avverbiali, erano le concessive, le consecutive, i periodi ipotetici a trascinarmi, ignara, nel passo giusto del valzer di Bierce.

Credo che a darmi la prima grande lezione di lentezza sia stata Wilma Stockenström. Il suo romanzo The Expedition to the Baobab mi venne affidato nel 1987. Lo tradussi senza sapere che traducevo una traduzione, senza sapere che lavoravo sulle parole di una poetessa bianca di origine afrikaner che in afrikaans appunto scriveva. E senza sapere che a tradurre le sue parole in inglese era stato J.M. Coetzee, al tempo sconosciuto in Italia. Il libro era, è, bellissimo. Così ne parla, nella riedizione uscita nel 2004, la curatrice Maria Antonietta Saracino: “[ .  .  .  ] dal desiderio di opporre resistenza alla vita, alla sua vita di schiava, prende le mosse l'intenso, poetico monologo dell'io-narrante del romanzo, una figura femminile della quale, lungo l'intero arco del testo, non ci è dato di conoscere il nome, ne sapere se ne abbia uno, perché, commenta, ‘pronuncio il mio nome e non significa nulla. Eppure io esisto.’”

Una voce senza nome, dunque. Ma talmente ricca di toni e registri da impormi, un'andatura prudente, una concentrazione diversa. Le pagine diventavano clessidre di parole e scandivano il tempo del mio lavoro senza concedermi previsioni. Inutile farsi programmi e tentare di rispettare le mie personali scadenze. Era la scrittura a stabilire i propri tempi, non la traduzione. Questa, che può sembrare una verità scontata, fu per me una rivelazione. Scoprivo la forza della poesia nella metrica di quella prosa musicale. Rendersi conto che è possibile intendere il senso di un testo da una prospettiva esterna, ma che lo stesso non può accadere per il ritmo di una scrittura, la grana di una voce d'autore, rappresentò per me un primo traguardo.

Per tradurre il romanzo di Wilma Stockenstrom dovevo attingere a qualcosa di più profondo della mia più o meno consolidata capacità di capire e di restituire. Il viaggio verso quella profondità nuova si svolgeva quasi sempre in modo inconsapevole, manifestandosi in tempo. Ci volevano, semplicemente, più ore, più giorni, più riletture. Ci voleva pazienza. E il coraggio di aspettare una parola anche per qualche minuto. O il coraggio di non trovarla affatto e di lasciarla indietro, per poi tornarci più tardi, domani.

Soltanto dentro al grande albero che è il vero sostegno narrativo di questo racconto ho sperimentato per la prima volta il fascino di un mestiere-rifugio. Tradurre diventava un espediente di privilegiato isolamento; c'è forse un pericolo in questo? Allora ne colsi comunque innanzi tutto il piacere. Un segreto.

Al principio il tempo non c'era. Perché non c'era tempo da dedicargli [ . . . ] Ora posso permettermi il lusso di classificare e di sfruttare tutti i vantaggi delle mie conoscenze vecchie e nuove. Posso addirittura riflettere su quel che faccio. Posso far scorrere i miei pensieri con regolarità e ordine, senza ingarbugliarli, poso dare alle mie fantasie la curva di un vaso d'argilla e lasciarla depositare come acqua ferma, posso fare in modo che la bocca del vaso si apra a beccuccio su quell’ incertezza d'aria azzurra e nera che mi penetra, e mi riempirebbe tutta se non facessi attenzione. I miei pensieri, li riempio di ogni sorta di cosa; interminabili elenchi; ringrazio la Provvidenza di riuscire a pensare un numero tale di cose da obliterare tutto, e per di più, di saperne inventare quando ho esaurito il magazzino della memoria. Ho buoni rimedi io, contro il vuoto interiore. (Wilma Stockenstrom, Spedizione al baobab)


Un effetto collaterale della traduzione (forse un po' inconfessabile e proprio per questo, ritengo, interessante da analizzare) è che il testo finisce spesso per dare al traduttore l'impressione di raccontare il suo stato. Non è un fenomeno analogo all'identificazione di un lettore, intendiamoci. È una sorpresa che spunta a metà tra le righe dell'originale e il futuro del teso tradotto. Anche a non farci troppo caso, anche a imporsi di non dimenticare il ruolo delle parole che andiamo cercando, è difficile resistere al piacere di quell’attrazione.

In fondo che rischio si corre? Che cosa c'è da temere? La confusione? Non credo. Perché, come ho detto. Il testo non parla di me, bensì del mio stato, della mia condizione di traduttore. Me la ricorda, me ne presenta continue metafore nuove. Wilma Stockenstrom mi ha offerto l'occasione di riflettere sulla traduzione come tempo di attesa.

Con Spedizione al baobab è cambiato anche il mio rapporto con il dizionario, e molto prima che sopraggiunse a stravolgere la rivoluzione della rete. Il traduttore cerca ovviamente sul dizionario il lemma che non conosce, forse ancora più spesso, cerca quello che invece conosce, ma che non ha ancora deciso come tradurre. Cerca insomma sul grande libro della lingua l'idea che tarda a risolvere quel particolare passaggio, quell'interiezione, e così via.

I dizionari svolgevano nella mia prassi la funzione di zattera a cui agganciare momentaneamente un silenzio mentale, nella speranza di trasformarla, al più presto, in una parola. Mi barricavo a volte fisicamente dietro le loro saldi torre di carta, per sentirmi meno attaccabile dalle armate insidiose dei dubbi. Dal dizionario bilingue passavo al monolingue, all'italiano o i sinonimi e contrari. Per godermi la rassicurazione di quei brevi elenchi di sfumature. Una pausa tranquillizzante: la mia parola era lì senz'altro, tra quelle autorevolmente proposte da Aldo Gabrielli.

Di fatto, smettevo di lavorare per affidare la soluzione ad associazioni lessicali preconfezionate. Il che poteva comportare alla fine una scelta fondata sul gusto. Com'è facile innamorarsi delle parole, di quelle più insolite, più colorite, di quelle più letterarie, o più gergali. Com'è facile dimenticarsi che, paradossalmente, nessun dizionario può contenere la parola che cerca il traduttore, ma tuttalpiù talvolta, e quasi per caso, può suggerirla.

Il gesto fisico che la ricerca comporta, quel volgersi un poco di lato, cercare la lettera) c’è stato un tempo in cui era un mio piccolo vanto segreto, quello di saper aprire il dizionario a poca distanza dalla pagina giusta) e scorrere le colonne fitte di meraviglie nuove e preziose, memorabili e istantaneamente dimenticate, si trasforma effettivamente in una specie di intervallo, il corrispettivo dell’accendersi una sigaretta, per distrarsi un momento dal testo e darsi la possibilità di ritornarci più concentrati subito dopo.

Il dizionario asseconda e sostiene la stanchezza di chi traduce senza promettere nulla; purtroppo, le soluzioni trovate per stanchezza spesso tradiscono il testo. Dopo tante ore trascorse sulla scrittura si possono infatti verificare due opposti fenomeni: che la fatica spinga a sorvolare sull’accuratezza, o che la stessa fatica incoraggi a delegare il più possibile al dizionario.

I traduttori sanno che entrambe le derive sono infruttuose. Nel primo caso, risulta evidente che al nostro lavoro saranno mancati il tempo e la voglia di chiederci se fosse davvero quella la voce di una frase, il colore di un aggettivo. Avremmo senz’altro la tendenza a pescare nel nostro più o meno vasto “formulario di corrispondenze”, per così dire. A data parola faremo corrispondere una traduzione consueta e cercheremo di fare lo stesso per frasi idiomatiche, interiezioni, perfino per certi brevi costrutti sintattici. Un pret-à-porter della lingua non necessariamente sbagliato, ma costituzionalmente inadeguato a tradurre letteratura.

L’alternativa, del resto, quella che può apparire come un eccesso di scrupolo, non garantisce esiti migliori, perché commette, per affaticamento, l’errore di sgranare il testo in una pioggia di termini a se stanti. Accostate poi sulla pagina una all’altra, tutte quelle parole “trovate sul dizionario”, si propongono una per una, senza saper costruire scrittura.

È così che ho imparato l’attesa; così che ho scoperto come sia spesso lo strumento migliore, o il più decisivo, nel corso di una traduzione. Senza naturalmente escluderne nessun altro.

Che cosa significa dunque aspettare le parole? Innanzi tutto, è ovvio, non avere fretta di individuare corrispondenze. Ma anche fidarsi di un meccanismo speciale della memoria, in grado di farci ricordare qualcosa che, personalmente, non conosciamo. Le parole dentro le frasi, le frasi dentro i paragrafi, i paragrafi dentro le pagine, le pagine dentro i capitoli, i capitoli dentro i romanzi. I romanzi scavati dentro la scrittura di quell’autore in particolare.

La memoria può da lontano guidarci alla scelta più giusta, o, se non altro, farci percepire quella sbagliata. A volte rileggo una frase tradotta e, più che accorgermi di qualcosa che non funziona, me lo ricordo. Tradurre è un po’ come avere interi romanzi sulla punta della lingua, e perciò sapere che la sensazione assomiglia a una forma di tormentosa amnesia nella quale l’unico ricordo certo è che si è dimenticato. In quel caso, ricorrere al dizionario è quasi sempre inefficace, perché non si tratta di acquisire forme lessicali, bensì di assorbire un contesto fino a ricordare come tradurlo.

C’è invece un altro esercizio, purtroppo raro, che può risultare d’aiuto. Non è possibile concederselo spesso, perché è un gioco che porta lontano, che scava cunicoli nella miniera del testo e si risolve in un bottino di informazioni superflue, in sé.

Prendo un racconto di Alice Munro, una storia apparsa sulle pagine del New Yorker nel giugno del 2008. Il racconto, che si intitola Deep-Holes, torna su un tema al quale l’autrice aveva già dedicato altre storie: quello dell’abbandono da parte di un figlio.

Come altre volte, la tecnica di Alice Munro è quella di far precedere la vicenda da un antefatto che resta impresso nella memoria del lettore per tutto il tragitto della narrazione.

In Deep-Holes, una famiglia composta da padre, madre e tre figli, di cui due maschi e una femmina poco più che neonata, stanno facendo un pic-nic in una località molto speciale in Ontario: Osler Bluff. La ragione di quella scelta risiede nel desiderio del padre geologo di mostrare a moglie e figli un luogo di notevole interesse per le sue ricerche scientifiche. La peculiarità geo-morfologica di Osler Bluff è quella di presentarsi come un manto roccioso sotto il quale si stende uno “strato di roccia scistosa, vale a dire argilla pietrificata, di grana finissima. L’acqua piovana si infiltra attraverso il calcare dolomitico, o dolomia, e quando raggiunge la roccia scistosa si deposita. Il fenomeno di erosione si verifica quando l’acqua cerca di riguadagnare la superficie scavandosi nella dolomia dei percorsi verticali”. I “buchi profondi” del titolo, appunto. È evidente che un luogo simile rappresenta un rischio altissimo, specie per i due fratellini curiosi e forse anche a caccia di un po’ di attenzione, dopo la nascita della sorella. Il maggiore, infatti, sprofonderà in una di quella cavità sotterranee per esserne estratto, gravemente ferito, dal padre. Questo, l’antefatto.

Il racconto precipita poi in avanti nel tempo, perché alla storia interessa arrivare al volontario e definitivo allontanamento di quel figlio da casa, al suo sprofondare in un pozzo dal quale non sarà più possibile recuperarlo.

Deep-Holes racconta insomma due volte lo sprofondamento di un figlio e la dolorosa rete di fatti e pensieri che la sua scomparsa produce.

Il lettore non può dimenticare l’episodio avvenuto durante il pic-nic di tanti anni prima e sarà quindi guidato a sentirlo come un’anticipazione narrativa potente e carica di allusioni. Il bambino precipitato nel buco di roccia si chiama Kent; il giovane che, al primo anno di studi universitari, deciderà di non rendersi reperibile ai suoi per unirsi a una comunità di persone indigenti, assumerà invece il nome di Giona, dopo aver scartato quello di Lazzaro.

Mettersi sulle tracce di questi tre nomi vuol dire avviarsi su un percorso affascinante e inutilizzabile. Significa scoprire la storia di Giona, l’uomo che non risponde al comando di Dio di raggiungere Ninive e anzi si incammina in direzione opposta, si imbarca sulla prima nave, subisce una tempesta, convince i compagni a gettarlo in mare per placare l’ira dell’acqua, è inghiottito dal pesce, dopo tre giorni viene sputato a riva, questa volta decide di ubbidire all’ordine dell’onnipotente, ammonisce la città corrotta, ne ottiene il pentimento, e infine si indigna con Dio perché non ha dato seguito alla sua stessa minaccia di distruzione e ottiene in risposta alla propria protesta una domanda divina: “È giusto che tu sia così sdegnato?”.

Giona è dunque non soltanto l’uomo che, scampato al ventre del grande pesce, rinasce alla vita, come il protagonista estratto dai sotterranei della terra, ma è anche il ribelle irriducibile, colui che ha l’ardire della disubbidienza prima e dell’indignazione poi. Il suo nome è perfetto per il personaggio del racconto, che infatti ha scartato l’associazione più ovvia con Lazzaro, il resuscitato, l’amico di Gesù.

Ma anche quello di Kent è un nome che ha una sua storia da raccontare. In Re Lear, infatti, Kent è il personaggio più fedele al re, una sorta di analogo maschile dell’onesta Cordelia. Kent parla a Lear in tono aperto e leale, rimprovera al sovrano il modo in cui ha trattato quella figlia e viene per questo esiliato. Kent è come un figlio amoroso che si sente scacciato dal padre, che reagisce al senso di abbandono e assume una falsa identità.

Anche questa vicenda arricchisce la comprensione del personaggio; ne affaccia i nomi su una Storia delle storie, e offre ai lettori l’opportunità di attingere al deposito della memoria. Che c’entra tutto questo con la traduzione? Poco, in fondo, perché tra i tanti ostacoli che un testo può contenere, quello dei nomi propri è uno dei più rari. I nomi son quelli; se si traducono, è solo perché la loro accezione appartiene saldamente ai canoni letterari di entrambe le lingue, quella dell’originale e quella della traduzione. (Per questa ragione, Jonah diventerà Giona, e Lazarus Lazzaro.)

Che se ne fa dunque il traduttore di tutte questa bellissime storie scoperte nelle parole e nei nomi? Niente, le perde. Ma allora quale può essere l’utilità di questo esercizio?

In fondo, direi, quella opposta alla pratica della ricerca del termine sul dizionario. Perché se in quel caso il testo risulta appiattito in una sorta di bidimensionalità che fa corrispondere parola a parola, qui si cala nei “buchi profondi” della scrittura; qui si comprende non attraverso ciò che si trova, bensì attraverso ciò che va perduto.



An excerpt from Sul tradurre. Esperienze e divagazioni militanti by Susanna Basso (Bruno Mondadori, 2010).

Click here to read an exerpt from Wilma Stockenström's The Expedition to the Baobab Tree, translated by J. M. Coetzee.