da Kafka. Un Mondo di verità

Giorgio Fontana

Illustration by Hugo Muecke

Ancora Kafka. Perché? Cento anni dopo la sua morte non ha perso un’oncia di fascino, e questo è già un problema. A pochi scrittori è riservato il fato di diventare aggettivo; a pochissimi che nome e aggettivo escano dall’ambito letterario per creare subito, in ogni contesto, «una determinata atmosfera emozionale»: Kafka, si dice allora, descrive la condizione dell’uomo contemporaneo; ha fatalmente anticipato i totalitarismi; svela il cuore di società sempre più burocratizzate e disumanizzate. Per la sintesi di Wikipedia la sua opera è «pregna di temi e archetipi di alienazione, brutalità fisica e psicologica, conflittualità genitori/figli, presentando personaggi in preda all’angoscia esistenziale, labirinti burocratici e trasformazioni mistiche».

Simili opinioni – in larga parte generiche o sfocate – sono spesso legate agli eventi che seguirono la morte di Kafka, la Shoah in primo luogo. Certo è inevitabile che i fatti del secolo trascorso ne abbiano condizionato la lettura, conferendogli uno status da profeta. Ma ciò implica un’ulteriore cautela: dovremmo difendere Kafka dalle nostre proiezioni indebite, e l’unico modo è concentrarsi sui testi senza ritagliare singole frasi da usare come grimaldelli per scassinare l’intera opera – senza incorrere nell’errore che il sacerdote del Processo imputa a Josef K.: «Tu non rispetti abbastanza lo scritto e cambi la storia».

Purtroppo anche qui sorge un problema: è impossibile leggere Kafka senza essere preceduti da un’interpretazione o da un pregiudizio, proprio a causa della sua fama e della quantità esorbitante di testi e conversazioni in cui è evocato. Michelle Woods osserva che lo leggiamo in traduzione, e non solo nel senso linguistico del termine: Kafka è al centro di una rete di mutazioni di sé in icona, oggetto di critica letteraria, fonte di riflessioni filosofiche, merce persino. È una preda ideale per chi vuole trovarvi un messaggio già confezionato o un appiglio alle proprie certezze: abbiamo così un Kafka per tutte le ideologie, per tutte le occasioni. Ma pure le idee più stimolanti sono esposte al rischio di calcificarsi in luoghi comuni e, ancor peggio, ci derubano della meraviglia.

Anche perché a una lettura attenta ci si accorge come ogni esegesi univoca sia condannata a fallire: c’è sempre una via ulteriore che si apre, un’ulteriore svolta nel labirinto: ogni tentativo di far dire a Kafka soltanto ciò che vorremmo diviene subito protervo, persino ridicolo: la pagina lo rispedisce al mittente.

Le vaste generalizzazioni sono attraenti e comode, dunque pericolose; ad esempio si ritiene che la colpa sia il motore dell’intera macchina kafkiana, e così si erge solo una parte della sua opera – in realtà molto più varia – a principio esegetico. Oppure si nominano alla rinfusa jiddish padre divino angoscia burocrazia, ma tali concetti ci allontanano irrimediabilmente dal testo: creano immagini di Kafka che non corrispondono se non in piccola parte a quanto ha scritto, e disperdono la sua fenomenale ricchezza espressiva.

O la sua oscurità, perché no. Leggendolo è normale, anzi salutare domandarsi: Ma che diavolo vuol dire? Nel 1917 un tale dottor Siegfried Wolff scrisse a Kafka chiedendo lumi sulla Metamorfosi, dato che né lui né la sua famiglia avevano saputo capire il racconto; e nonostante l’abbondanza di commenti oggi a disposizione, ci sentiamo ancora un po’ nei suoi panni. Pretendere di aver decifrato tutto significa aver letto male, perché c’è un enigma impenetrabile che Kafka ha cucito nel profondo nelle sue righe. E forse a furia di scavare con ogni sorta di attrezzo (filologico, psicologico, teologico) alla ricerca del tesoro sepolto, con un puntiglio a volte un po’ autolesionista, ci siamo scordati dei doni offerti in superficie: la tersa bellezza della prosa, l’inesauribile fertilità creativa.

Non essendo né un germanista né un filologo, e avendo lavorato quasi sempre in traduzione, sfrutterò invece la mia specificità: ragionerò insomma da scrittore. Ciò comporta, ad esempio, la diffidenza verso tesi onnicomprensive preferendo lo studio dei modi in cui Kafka si rapporta alla pagina: problemi concreti, in apparenza umili ma in realtà decisivi come la scelta di un nome, l’entrata in scena di un personaggio, il posizionamento di una svolta narrativa. Non mi limiterò a questo, ma sarà la base del mio lavoro.

Per cominciare, consideriamo l’effetto provocato su di noi dalle storie di Kafka: siamo quasi costretti a vivere la rottura descritta e precipitare nel gorgo di insicurezza. Già Adorno parlava di una sovversione del tipico rapporto contemplativo con i testi: Kafka implica che essi «investano la dimensione affettiva del lettore a un punto tale che questi tema che il raccontato si avventi su di lui». È così. Naturalmente la sensazione di essere attraversati dalle parole non è un alibi per leggere frettolosamente, quasi che il libro agisca per magia senza il nostro contributo; al contrario un’emozione così intensa e rara deve spingerci a maggiore scrupolo. Ma ci sono istanti in cui le sue pagine sembrano realmente guardarci, leggerci nel profondo e non viceversa: le immagini ci dominano, ne percepiamo l’urgenza, la radicale necessità; intuiamo che la posta in gioco è altissima.

Perché l’arte di Kafka è difficile, ma non è mai pretenziosa o disonesta. Non bara, non gioca a ingannare deliberatamente: se la avviciniamo con spirito libero ancora oggi erompe dalle sue pagine la verità che egli tanto cercava.

L’ho sempre creduto, fin dal primo momento in cui aprii Il processo. Avevo diciassette anni e non ci capii granché, ma ne rimasi sconvolto: davvero la letteratura poteva spingersi tanto in là? Davvero era possibile chiedere ai lettori una simile disponibilità a credere? Così da decenni vado ripetendo che Franz Kafka è il mio scrittore preferito, ma ogni volta avverto una punta amara sulla lingua, il gusto inconfondibile dell’imprecisione. Parlando di lui cerco ogni volta una parola mai coniata, e che pure dovrebbe esistere. Ci sono scrittori e scrittrici che rileggo più frequentemente, ma di nessuno potrei affermare quel che Franz stesso affermò di Strindberg:

Non lo leggo per leggerlo, ma per posare la testa sul suo petto. Egli mi tiene come un bambino sul braccio sinistro. Vi sto seduto come un uomo su una statua. Dieci volte in pericolo di scivolare giù, all’undicesimo tentativo siedo saldamente, sono sicuro, e ho un ampio orizzonte.

E c’è tutto, direi: il pericolo di scivolare, di non capire, di arrendersi; e all’ennesimo tentativo, infine, un senso di saldezza. L’orizzonte che si spalanca all’improvviso.

Tale sensazione, inutile negarlo, ha a che fare con la vita stessa di Kafka – oggetto di indagine e curiosità morbosa tanto quanto la sua opera, se non di più. È molto semplice schiacciare l’una sull’altra trovando coincidenze ovunque, e così del resto è stato fatto; ma è un automatismo che non rende giustizia a uno scrittore della sua levatura e probità.

Questo spiega tutto, si pensa sollevati analizzando il rapporto tra Kafka e il padre. Invece non spiega nulla: né l’estro stilistico, né la potenza simbolica, né le finezze di trama; dà solo l’illusione di aver compreso, da cui una massa di luoghi comuni. E soprattutto rende Kafka inoffensivo; per usare un’espressione di Sartre, «ne garantisce l’uso senza rischi».

A ciò si somma una questione morale: occorre chinarsi con riluttanza sugli scritti privati di Kafka, che per sua volontà non avrebbero dovuto essere pubblicati. L’argomento di Canetti per il quale Franz stesso, «la cui massima caratteristica era il rispetto, non è rifuggito dalla lettura sempre di nuovo ripresa delle lettere di Kleist, di Flaubert, di Hebbel» non regge: l’eventuale mancanza di una persona non giustifica la nostra nei suoi confronti.

Però è indispensabile leggerli: sono un documento preziosissimo che illumina la passione di scrivere «come una specie di vocazione proibita» (così Genette sulla corrispondenza di Flaubert, aggiungendo che il solo paragone possibile sono proprio i Diari di Kafka). Dunque li useremo, così come useremo i testi letterari inediti in vita, ma coscienti di invadere la privacy di un morto; e qui il plurale valga come patto: siamo tutti colpevoli, lettrici e lettori.

Troppi hanno sfruttato senza riserbo ogni riga personale di Franz, edificando carriere sopra ciò che avrebbe dovuto essere consegnato alle fiamme per sua stessa volontà; Auden ha ipotizzato perfidamente che forse, «quando espresse il desiderio di veder distrutti i suoi scritti, Kafka presentì la natura di troppi suoi odierni ammiratori».

Lo stesso fascino che promana della sua biografia non va stravolto o usato come scusa; invita anzi a esercitare un più severo pudore. Come dice splendidamente Adriano Sofri: «Si ama Kafka in due modi opposti e complementari: con la devota soggezione suscitata dal riconoscimento di un dono inaudito dell’intelligenza messa in scrittura; e con la trepidazione protettiva verso un’esistenza offesa e spiritosa».

Desidero preservare questo amore – forse non c’è davvero altra parola – unendolo al massimo della cura: ripagare Kafka del debito culturale che abbiamo contratto con lui e del debito personale che provo io da decenni, leggendolo con la mente il più sgombra possibile.





This excerpt is the prologue of the book Kafka. Un mondo di verità (Sellerio, 2024), pp. 11-19.