Non avevo mai sentito nessuno sibilare così, e nei loro occhi brillava un sentimento che da grande avrei definito di puro disprezzo.
Dalle risposte di mia madre capì che quelle parole avevano a che fare con il colore della nostra pelle.
Non avevamo fatto niente di male, e tutte le volte che usavamo i mezzi pubblici i miei genitori si raccomandavano con me di tenere le mani a posto e ben in vista, lontane dalle borse delle signore, o chissà cosa avrebbero potuto pensare o dire.
Non le avevamo toccate né urtate, eppure erano lì a guardarci con quel ghigno cattivo, forti di una silenziosa solidarietà da parte degli altri passeggeri. La nostra unica colpa credo fosse quella di esistere.
Mi ero guardata allo specchio tante volte ma solo quel giorno, a sei anni, ho capito davvero cosa significasse essere una persona nera agli occhi di alcuni. Non che non sapessi di esserlo, ma prima di allora non immaginavo che questo potesse rappresentare un problema.
D’altronde, al parco o alla scuola materna nessuno aveva mai utilizzato la carta del colore per non giocare con me, e alcuni pomeriggi, quando andavo con mia mamma a fare le compere, signore profumatissime e ben vestite si chinavano per accarezzarmi i capelli folti e ricci e dirmi «ma che bella bambina».
In quegli anni mi sono spesso sentita sbagliata per il fastidio provocato da quelle mani sconosciute su di me, ma facevo la brava - come mi era stato insegnato - sorridevo e ringraziavo.
Invece, di colpo, quello sguardo.
Diverse settimane dopo, a scuola, durante la ricreazione, un gruppo della mia classe stava giocando al gioco della bottiglia. Questa aveva appena completato il giro e puntava su Daniele. Io mi avvicinai incuriosita e mi misi seduta per terra, ma non troppo vicina a loro per non infastidirli. All’improvviso, Giulia e Nausicaa, le bambine più belle della classe, chiesero a Daniele «obbligo o verità?». Lui scelse obbligo. Non era la prima volta che ci giocavano, ma io non ero mai stata invitata a prendervi parte, quindi generalmente mi limitavo ad osservare da lontano.
Le due bambine dopo una breve consultazione con tanto di gomitate e risatine gli dissero: «baciala, se ne hai il coraggio», facendo un cenno verso di me con il mento.
Non ebbi il tempo di realizzare cosa stava per succedere, ma Daniele si spostò di qualche centimetro dal gruppo, senza nemmeno alzarsi, e appena fu sufficientemente vicino mi sfiorò rapidamente le labbra. Lo sguardo tranquillo e il solito modo di fare le cose come se non gli importasse di nulla. Mezzo secondo dopo era già tornato al suo posto.
Intorno a noi, uno stupore generale e dei visi all’improvviso inorriditi.
Sapevo che ce l’avrebbero fatta pagare per settimane e che lui sarebbe diventato oggetto di battute cattive per aver osato fare l’impensabile. Non mi sbagliavo.
Per settimane siamo stati accolti da risatine di scherno e parole irripetibili che associavano il mio colore all’essere una bambina brutta; sono stata tormentata nei bagni della scuola per mesi, e quelle mura sono rimaste intrise delle mie lacrime e di quella frase cantata «Daniele ha baciato la negretta, pappappero».
A distanza di anni, questo è ancora oggi il ricordo più bello e più brutto della mia infanzia.
Nonostante tutto, alle elementari ho cercato quotidianamente di colmare quel desiderio di normalità con la simpatia e la dolcezza, ma non era mai abbastanza. Volevo disperatamente sentirmi come tutte le altre bambine; sognavo i loro capelli lisci, la carnagione chiara e il loro incedere aggraziato che le rendeva visibili, ma uguali a tutte le altre. Senza nessuna stranezza, insomma. Ed era così che si sentivano e che le vedevo io quando si sedevano sui banchi all’angoletto della classe a giocare con le Polly Pocket, e a ridere tirando indietro la testa, facendo vibrare quelle capigliature così perfette, luminose e morbide.
Io invece con i miei innumerevoli capelli ricci, la pelle scura e la camminata entusiasta, ma anche piena di interrogativi e paure, occupavo uno spazio sempre maggiore di quello sperato. Ero visibile per loro, ma non come una bambina della loro età, più come una smarginatura nelle loro linee rette.
È con questa consapevolezza che un pomeriggio, mentre facevo i compiti sul sussidiario, ho avuto l’idea che pensavo avrebbe finalmente risolto il problema della mia non querida presencia. Così, mi arrampicai su una una sedia e in punta di piedi tirai giù il dizionario di lingua italiana che i miei genitori avevano acquistato qualche tempo prima. Mi ero messa in testa,infatti, che se avessi memorizzato tutte le parole scritte lì, il mio colore non avrebbe più rappresentato un ostacolo alle interazioni e ai giochi, e finalmente sarei riuscita ad avere degli amici anche io.
Il primo termine estremamente difficile da pronunciare per me, è stato asseverazione: «certificazione, nei modi previsti dalla legge, della verità di un fatto, di un documento, di una dichiarazione, o della conformità al testo originale di una traduzione». Ci vollero diverse settimane di esercizio davanti allo specchio, cercando di evitare di pronunciare la zeta come se fosse una esse, prima che la dicessi con scioltezza e disinvoltura.
Sulla prima pagella di quell’anno, che tuttora resiste ai diversi traslochi della mia vita, le maestre scrissero: «la bambina talvolta si esprime con termini che risultano difficili anche per noi».
In effetti, col senno di poi, il mio linguaggio così strano era riuscito nell’intento di attirare maggior attenzione su di me peggiorando, se possibile, le prese in giro a cui ero sottoposta quotidianamente.
Prima generazione nata a Roma da genitori stranieri, ho realizzato solamente in età adulta di essere cresciuta con l’idea di una presunta superiorità della razza bianca. Dopotutto, in me erano scolpite a chiare lettere le parole pronunciate dal mio trisavolo portoghese cento anni prima: «siete una razza mescolata con la merda». E così sia.
E se da ragazzina il problema era una quasi totale esclusione dalla socialità, dai giochi e da gran parte delle feste di compleanno, crescendo le cose non sono migliorate.
La mia vita da adolescente, e poi da adulta, è diventata sempre più complessa, così come le ferite della mia anima.
Tutti quegli sguardi giudicanti su di me, pronti ad esprimere sentenze sul mio stato sociale, il mio corpo e la mia educazione, hanno espanso la ferita, ormai divenuta voragine, facendomi perdere sempre di più la reale percezione di me stessa e di una riservatezza che pensavo mi spettasse di diritto.
E invece, il mio corpo non è mai stato davvero mio per molti anni:
oggetto di mani sempre pronte a toccare i miei kabelu brabu;
oggetto di voci pronte a parlare della mia sessualità: «dì la verità, ti piace quando ti prendo così, eh? Voi africane a letto siete degli animali»;
oggetto di voci volte a parlare sulla mia educazione: «i tuoi genitori ti hanno educata all’italiana, bravi!»;
E poi, mamma, quelle tue carezze e parole per proteggermi, che ho odiato per tanto tempo: «amore, mi raccomando, comportati sempre bene e studia. Fagli vedere che anche se sei nera, sei intelligente come loro».
Quanto abbiamo sofferto, io e te, quella volta che l’impiegata delle Poste ti urlò contro come aprire un conto corrente, perché convinta tu non capissi la lingua italiana.
Le mie mani strette al tuo cappotto e la paura che quel mostro potesse farti del male non le ho mai dimenticate.
Le lacrime che ho furiosamente ricacciato giù, su quelle scale di piazza Bologna, mi hanno sorpresa circa quindici anni dopo mentre lo raccontavo ad un’amica.
Lì ho capito che la ferita era ancora aperta.
E poi quando ho amato per la prima volta, ma un pomeriggio ho osato arrabbiarmi, alzare i toni, riesumando quella voce che mi era stato chiesto di nascondere, e che era rimasta a lungo sepolta dentro di me.
Per la prima volta mi sono sentita finalmente libera di essere; ma la mia libertà è durata un attimo.
«Sei una selvaggia, civilizzati!» - mi ha urlato.
Avevo ventisei anni e sono stata immediatamente ricondotta nella gabbia.
Ci è voluto tanto per riconoscere e verbalizzare ognuna di queste aggressioni, specialmente per me che appartengo ad una generazione che impara da altri giovanissimi nuovi italiani le parole per descrivere quel malessere a lungo interiorizzato.
Ho parlato per la prima volta di conflitto identitario pochi anni fa.
Ammettere, in un luogo che non fosse la mia stanzetta, di non sentirmi italiana né capoverdiana, e di vivere in un perenne senso di smarrimento e altalenante riconoscimento del mio posto nel mondo, è stato innaturale, profondamente doloroso, ma necessario. Perché vero.
Durante i viaggi estivi a Capo Verde sono stata sottoposta a test di kriol che attestassero la mia reale capoverdianità, ma anche a domande che provassero il mio non essere troppo occidentale.
E in Italia? Beh, per tanto tempo ho dovuto gridare forte dentro di me quanto mi sentissi italiana, forse nel tentativo di convincermi di questo dato di fatto, nonostante abbia dovuto rinnovare il permesso di soggiorno per diciott’anni, e su quel pezzo di carta comparisse la scritta “nata a Roma”.
E allora, cosa sono io?
Io sono un fatto sociale.
Io dico nera e tu leggi stereotipo.
Il tuo saccente e laido sguardo bianco si posa su di me, mi giudica, mi soppesa e valuta sulla base del mio colore.
Quelli come me non possono commettere errori, o sarebbero tacciati di essere «le famose risorse che la Boldrini ama accogliere in casa sua».
E la presunta migrazione vi sta bene solo quando siamo bravi, onesti, grandi lavoratori e docili.
Ma vi siete mai chieste chi è “l’immigrato”?
Chi sia, che volto abbia, di cosa viva, cosa gli piaccia, nessuno lo sa; l’immigrato non è una persona, né un animale, ma solo un grande cassetto degli attrezzi in cui riporre tutte quelle cose che non sappiamo dove mettere.
Io in quel cassetto ci sono stata messa più volte nella mia vita e alcune, più di altre, hanno lasciato una traccia nella mia memoria:
Al bar, una mattina, prima di andare all’università:
«Ao, bella moretta, ma lo parli l’africano?»
«No».
Alla Stazione Tiburtina, con un autista palesemente in torto marcio:
«E tu che cazzo ti guardi negra di merda?»
«Mi giro dall’altra parte, scusi».
A fine lezione, una studentessa con una brillante carriera diplomatica dinanzi a sé:
«Ma tu sei nata qui, qui?» (indicando con il dito il suolo sotto i suoi piedi).
«Sì».
«E come è possibile?»
«Ah boh, mia madre il giorno del parto, ha spinto così tanto che da Capo Verde sono atterrata all’ospedale S. Camillo di Roma».
Un ragazzo conosciuto ad un concerto di musica elettronica:
«Certo che per essere africana, hai dei gusti un po’ troppo occidentali».
«Dici, eh?»
Un’amica, in un locale, qualche compleanno fa:
«Ho votato Salvini alle ultime elezioni».
«Ah».
«Sì, sono stufa di tutti questi stranieri che vedo intorno a me, si sono moltiplicati».
«Ma anche tu sei straniera».
«Io dicevo gli africani. Ordiniamo?»
«No».
«Ci sei rimasta male?”
«Sì, mia mamma è nera, o africana, come dici tu. Quando sento i rappresentanti della destra parlare, mi assale la paura che un giorno qualcuno possa farle del male perché nera. Quindi sì, ci sono rimasta male e non riesco a non prenderla sul personale».
«Vabbé, ma che c’entra? Tua madre vive qui da tanto, ormai è italiana. E anche tu lo sei, e poi sei amica mia».
«Non credo potremo condividere altri pasti insieme».
Non è facile spiegare cosa significhi vivere da persona razzializzata a chi minimizza e ti dice che stava scherzando.
Molte volte mi sono chiesta se il dolore, quel vuoto nella pancia, avesse il diritto di essere preso sul serio solo per un semplice scherzo.
Ma quella sofferenza rimaneva lì, e anziché passare col tempo si faceva strada nel cervello, nella carne, nelle membra «quella persona è razzista…razzista…razzista!»
Ecco, l'ho detto. Razzista. Razzista lo sguardo. Razzista il pensiero. Razzista il gesto.
Come mi sento? Meglio? Mica tanto.
Per sentirmi meglio dovrei vedere un cambiamento ed avere la certezza che questo tipo di interazioni diminuiscono sempre di più con gli anni. Ma non è così.
E allora ti inizi a domandare se il problema non siano davvero solo le persone, ma il tessuto di cui è fatto questo Paese. Il mio Paese.
E allora ti chiedi se si troverà mai una soluzione e se io mi sentirò mai a casa. E se i miei figli, se mai li avrò, qui si potranno sentire a casa.
Ma non ho tante speranze.
Non ho tante speranze quando apro un giornale e leggo titoli come “Delinquente africano”, come se la violenza avesse una matrice etnica.
Non ho tante speranze quando accendo la TV, e non trovo una serie italiana in cui un personaggio nero non dica “NO BARLO IDALIANO SIGNÒ” o un’attrice nera non interpreti il personaggio di quella che la mattina fa la colf,e la sera si prostituisce per mantenere sé stessa e la sua famiglia.
In queste storie non c’è mai una persona straniera o di origine straniera che abbia una formazione universitaria o che non svolga un lavoro umile, ma è sempre presente la figura di colui o colei che salva, aiuta e pone fine ad una sicura vita di stenti.
Non ho tante speranze quando sento i dati Istat che dicono che sono circa un milione e mezzo gli italiani senza cittadinanza. Di questi, circa la metà fa parte della famosa “fuga di cervelli” che nell’immaginario collettivo è composta solo da figli bianchi costretti a lasciare la terra natìa.
La maggior parte delle seconde generazioni, nonostante la laurea, è condannata a svolgere gli stessi lavori dei propri genitori e a rimanere nella classe sociale più marginale.
Il 35% delle donne nere dichiara di aver subìto molestie sessuali sul luogo di lavoro.
Gli stranieri in Italia rappresentano circa il 10% della forza lavoro. Nonostante questo, sono impiegati in lavori dove lo sfruttamento è all’ordine del giorno e il pericolo per la salute è molto alto.
Nel 2022 sono state 1.379 le aggressioni con matrice razzista.
Una donna nera su cinque è sopravvissuta ad uno stupro.
Le discriminazioni e la depersonalizzazione identitaria non riguardano solo chi è razzializzato, ma la società nella sua interezza.
La prossima volta fateci caso.
