Scarpe da ballo
Patrizia Cavalli
Entrai verso le cinque nel negozio,
ero con Mary, l’esperta appassionata
compratrice, la gran collezionista
che aveva un piano della sua casa a Morton
pieno di enormi borse a scacchi plasticate
con dentro aggrovigliato il repertorio
intero di Miyake. Sembrava un cimitero
ingombro e desolato. Ma poi ad aprirle
le borse si animavano: quegli straccetti
cadaveri compressi, spesso tarlati,
ora risorti alle forme originarie,
Mary guardandoli se li appoggiava al petto,
giocava un po’ con loro, li scaldava,
e i fortunati, magari due minuti,
l’indossava. E poi di nuovo dentro,
e arrivederci. Cos’altro ci si poteva fare,
erano troppi. Ma alcuni perlomeno
restavano negli occhi.
*
Collezionare? Collezioni che accolgono democraticamente tutto, purché di uno stesso genere? Comprensive e pietose? Smodate e distratte? No, io non colleziono niente. Le collezioni mi fanno soffrire, sia che tenendole dentro cassetti e armadi non le vedi mai, sia che avendole sempre sotto gli occhi non le vedi più.
Io volevo soltanto un paio di scarpe, quelle che il giorno prima avevo visto attraverso il vetro di un negozio mentre stava chiudendo, e che nessun prezzo, neanche il più impossibile, m’avrebbe scoraggiato dal comprare. Quelle: color lavanda, limone d’Amalfi e ruggine fresca; a strisce larghe e diseguali, pontormesche. Che solo a guardarle da lontano sentivo un brivido aristocratico che dai piedi mi saliva lungo le gambe, e saliva saliva e raggiungeva le spalle, e poi, trascorrendo sulla nuca, con circonvoluzione della testa, mi scendeva davanti fino a irradiarsi nel cuore. Se delle scarpe riescono a fare un giro simile, non sono certo scarpe qualunque!
La mia amica Mary, conoscendo le mie intenzioni, aveva insistito per venire con me al negozio: ‹‹ Ehi, quelli sono i miei giocattoli, non vorrai mica giocarci da sola! ›› Oh, no di certo, Dio me ne guardi. Per cui eccoci sottobraccio a varcare la soglia. Ma non appena dentro, io subito mi allontanai da lei: volevo raggiungere ciò che mi stava fisso in testa con tutte le mie energie ancora intatte, e temevo gli inceppamenti e le lungaggini estenuanti di Mary, che già si stava apprestando a gironzolare tra ripiani e scaffali con quella ritrosa svogliataggine che sempre precedeva i suoi più incontenibili furori acquisitivi.
Un commesso mi venne incontro: neanche il tempo di indicargli l’oggetto della mia impazienza, ed eccolo in ginocchio che m’infilava le scarpe giuste della misura giusta. Com’ è energetico e rassicurante sentirsi stringere i lacci! Quel commesso li stringeva con così dolce fermezza che, al nodo finale, i miei piedi, tintinnanti di gioa, presero a girovagare in un balletto festoso che si spargeva a caso un po’ a destra e un po’ a sinistra, fino a che non raggiunse lo specchio. Allora, fermandomi del tutto, annunciai decisa: ‹‹ Le prendo ››; e una pace, mesta, calò su di noi, o almeno su di me. Eccomi qui, pensavo, con queste belle scarpe — sono mie, le ho ai piedi, ci ho pure ballato —, e invece di restare in quel piacere, restarci almeno fino al momento di andare a letto, io me le tolgo e le faccio metter via, al chiuso, in una scatola.
Ah, ma perché non si è mai pronti per la felicità evidente? Per quale orrenda timidezza, o stupido pudore, o disgustosa ignavia, ci si scosta dalla cosa amata, dalla sua gioia scalpitante, e solo dopo averla sottoposta alla prova della distanza e della privazione, la si riammette nella nostra intimità? Cos’ è questo desiderio coscienzioso che all’ingorda e ingenua impazienza del piacere antepone la calma cerimonia del possesso? Cosa si stava preparando, un matrimonio? O un fidanzamento d’altri tempi?
Ero immersa in questi quasi pensieri, più simili a un aggrovigliato imbarazzo che a un disteso ragionare, quando il commesso, porgendomi in un inchino le scarpe ben impacchettate, dichiarò:
‹‹ Questo è un regalo del negozio per lei ››.
‹‹ Davvero? ››, feci io a occhi spalancati.
‹‹ Sì, prego! Questo è un regalo del negozio per lei ››.
‹‹ Ma veramente? ››
‹‹ Sì, prego! Prego! ››, insisteva, ripetendosi nell’inchino.
‹‹ Beh, grazie allora... grazie! Che magnifica gentilezza! ››
Ci credevo? Un po’ sì e un po’ no. Da un lato, era evidente, quelle scarpe mi appartenevano di diritto; io poi, da parte mia, non mi ero certo risparmiata in lodi e esclamazioni. E non è forse nella loro tradizione offrire in dono ciò che l’ospite ammira? Gli sembrerà sgarbato, pensavo, farmele pagare. Poteva darsi. Ma poteva anche essere un modo indiretto, più elegante di un normale sconto, di gratificare la mia amica, che in quel negozio spendeva cifre folli. Mi avvicinai a Mary per avere chiarimenti:
‹‹ Me le vogliono regalare... come mai? ››
‹‹ Di che parli? ››, replicò distratta, con lo sguardo che le sfuggiva da ogni parte.
‹‹ Le scarpe... me le vogliono regalare ››.
‹‹ E tu prendile!... Non sei contenta? ››
‹‹ Eccome!... Ma perché me le regalano? Non è strano? ››
‹‹ Cosa vuoi che sia per loro! Se lo possono permettere ››.
‹‹ Lo fanno per te, è chiaro! Una specie di bonus... di percentuale sugli acquisti. Tu già lo sapevi, di’ la verità ››.
‹‹ Ma no!... Però non mi sorprende... La verità è che non ne possono più delle signore dell’Upper East Side... tutte uguali!... Si annoiano... Quando capita qualcuno di diverso, come te... che balli persino... è un tale sollievo uscire dalla routine! Ti vedono... vedono la grazia, la simpatia, la stravaganza, l’inventività, l’energia, l’entusiasmo... e subito sono presi dalla voglia di fare un regalo. Ogni tanto devono divertirsi un po’ anche loro, poveracci! ››
Trovai la spiegazione molto convincente e, direi, definitiva: perciò non mi restava che andare a casa a vantarmi, anche perché, viste le braccia di Mary stracariche di merce — non era sua abitudine indicare, lei toccava, afferava e teneva —, fossi rimasta, rischiavo il voltastomaco.
‹‹ Guarda un po’! — dissi alla mia ospite tirando fuori le scarpe. — Me l’anno regalate ››.
‹‹ Chi? ››, domandò divertita.
‹‹ Il negozio ››.
‹‹ Scordatelo! ››
‹‹ Ti dico che me le hanno regalate ››.
‹‹ Scordatelo! Quelli non regalano niente. Sarà stata Mary ››.
‹‹ No, me le ha regalate il negozio, ogni tanto lo fanno, quando arriva qualcuno di molto simpatico... ››
‹‹ Scordatelo! Quelli non fanno niente per simpatia. Quelli non fanno regali. Non regalano neanche un kleenex. Le ha pagate Mary, sono sicura ››.
Fosse anche stato vero, il piacere di possederle non sarebbe certo diminuito per questo. Ma il vanto che mi aveva accompagnato per strada, quella certezza di aver meritato le scarpe unicamente perché, avendole indosso, muovevo i piedi a festa, cominciò a vacillare: non era più un pubblico dono per meriti evidenti, ma un dono privato, per affetto personale. Scoprii che era così. Il mattino seguente Mary ammise di averle pagate lei, lo ammise subito, perché tanto, diceva, si capiva benissimo com’era andata. Colpa del commesso, che non aveva fatto bene la sua parte: era stato goffo e frettoloso, mentre avrebbe dovuto accompagnare il dono con una serie di argomenti irrefutabili, seguendo le sue minuziose istruzioni. Purtroppo non era il commesso giusto, il commesso giusto quel giorno non c’era, e lei ne era molto contrariata.
Conservo da circa dieci anni queste scarpe. A vederle sembrano nuove. Difatti, pur essendo comodissime, le metto solo nelle occasioni speciali, che però non saprei dire quali sono, in quanto di solito mi aspetto che siano le occasioni stesse a farsi riconoscere, lì per lì, come speciali, cosa che a dire il vero fanno molto raramente. Questo non mi dispiace, perché meno le uso e meno mi ci abituo, e io mai vorrei abituarmi a loro. Che tristezza per me, il giorno in cui non dovessi più stupirmi di quei colori estremi e imprevisti, del giallo che si sporge e squilla! E che malinconia, se smettessi di bearmi di quella forma, di grazia manierista, che mi fascia teneramente ma con fermezza i piedi, e che dà ai miei passi febbrili e vanitosi la lievità del bene, per cui raggiungono ogni meta senza troppo rumore, quasi galleggiando!
ero con Mary, l’esperta appassionata
compratrice, la gran collezionista
che aveva un piano della sua casa a Morton
pieno di enormi borse a scacchi plasticate
con dentro aggrovigliato il repertorio
intero di Miyake. Sembrava un cimitero
ingombro e desolato. Ma poi ad aprirle
le borse si animavano: quegli straccetti
cadaveri compressi, spesso tarlati,
ora risorti alle forme originarie,
Mary guardandoli se li appoggiava al petto,
giocava un po’ con loro, li scaldava,
e i fortunati, magari due minuti,
l’indossava. E poi di nuovo dentro,
e arrivederci. Cos’altro ci si poteva fare,
erano troppi. Ma alcuni perlomeno
restavano negli occhi.
*
Collezionare? Collezioni che accolgono democraticamente tutto, purché di uno stesso genere? Comprensive e pietose? Smodate e distratte? No, io non colleziono niente. Le collezioni mi fanno soffrire, sia che tenendole dentro cassetti e armadi non le vedi mai, sia che avendole sempre sotto gli occhi non le vedi più.
Io volevo soltanto un paio di scarpe, quelle che il giorno prima avevo visto attraverso il vetro di un negozio mentre stava chiudendo, e che nessun prezzo, neanche il più impossibile, m’avrebbe scoraggiato dal comprare. Quelle: color lavanda, limone d’Amalfi e ruggine fresca; a strisce larghe e diseguali, pontormesche. Che solo a guardarle da lontano sentivo un brivido aristocratico che dai piedi mi saliva lungo le gambe, e saliva saliva e raggiungeva le spalle, e poi, trascorrendo sulla nuca, con circonvoluzione della testa, mi scendeva davanti fino a irradiarsi nel cuore. Se delle scarpe riescono a fare un giro simile, non sono certo scarpe qualunque!
La mia amica Mary, conoscendo le mie intenzioni, aveva insistito per venire con me al negozio: ‹‹ Ehi, quelli sono i miei giocattoli, non vorrai mica giocarci da sola! ›› Oh, no di certo, Dio me ne guardi. Per cui eccoci sottobraccio a varcare la soglia. Ma non appena dentro, io subito mi allontanai da lei: volevo raggiungere ciò che mi stava fisso in testa con tutte le mie energie ancora intatte, e temevo gli inceppamenti e le lungaggini estenuanti di Mary, che già si stava apprestando a gironzolare tra ripiani e scaffali con quella ritrosa svogliataggine che sempre precedeva i suoi più incontenibili furori acquisitivi.
Un commesso mi venne incontro: neanche il tempo di indicargli l’oggetto della mia impazienza, ed eccolo in ginocchio che m’infilava le scarpe giuste della misura giusta. Com’ è energetico e rassicurante sentirsi stringere i lacci! Quel commesso li stringeva con così dolce fermezza che, al nodo finale, i miei piedi, tintinnanti di gioa, presero a girovagare in un balletto festoso che si spargeva a caso un po’ a destra e un po’ a sinistra, fino a che non raggiunse lo specchio. Allora, fermandomi del tutto, annunciai decisa: ‹‹ Le prendo ››; e una pace, mesta, calò su di noi, o almeno su di me. Eccomi qui, pensavo, con queste belle scarpe — sono mie, le ho ai piedi, ci ho pure ballato —, e invece di restare in quel piacere, restarci almeno fino al momento di andare a letto, io me le tolgo e le faccio metter via, al chiuso, in una scatola.
Ah, ma perché non si è mai pronti per la felicità evidente? Per quale orrenda timidezza, o stupido pudore, o disgustosa ignavia, ci si scosta dalla cosa amata, dalla sua gioia scalpitante, e solo dopo averla sottoposta alla prova della distanza e della privazione, la si riammette nella nostra intimità? Cos’ è questo desiderio coscienzioso che all’ingorda e ingenua impazienza del piacere antepone la calma cerimonia del possesso? Cosa si stava preparando, un matrimonio? O un fidanzamento d’altri tempi?
Ero immersa in questi quasi pensieri, più simili a un aggrovigliato imbarazzo che a un disteso ragionare, quando il commesso, porgendomi in un inchino le scarpe ben impacchettate, dichiarò:
‹‹ Questo è un regalo del negozio per lei ››.
‹‹ Davvero? ››, feci io a occhi spalancati.
‹‹ Sì, prego! Questo è un regalo del negozio per lei ››.
‹‹ Ma veramente? ››
‹‹ Sì, prego! Prego! ››, insisteva, ripetendosi nell’inchino.
‹‹ Beh, grazie allora... grazie! Che magnifica gentilezza! ››
Ci credevo? Un po’ sì e un po’ no. Da un lato, era evidente, quelle scarpe mi appartenevano di diritto; io poi, da parte mia, non mi ero certo risparmiata in lodi e esclamazioni. E non è forse nella loro tradizione offrire in dono ciò che l’ospite ammira? Gli sembrerà sgarbato, pensavo, farmele pagare. Poteva darsi. Ma poteva anche essere un modo indiretto, più elegante di un normale sconto, di gratificare la mia amica, che in quel negozio spendeva cifre folli. Mi avvicinai a Mary per avere chiarimenti:
‹‹ Me le vogliono regalare... come mai? ››
‹‹ Di che parli? ››, replicò distratta, con lo sguardo che le sfuggiva da ogni parte.
‹‹ Le scarpe... me le vogliono regalare ››.
‹‹ E tu prendile!... Non sei contenta? ››
‹‹ Eccome!... Ma perché me le regalano? Non è strano? ››
‹‹ Cosa vuoi che sia per loro! Se lo possono permettere ››.
‹‹ Lo fanno per te, è chiaro! Una specie di bonus... di percentuale sugli acquisti. Tu già lo sapevi, di’ la verità ››.
‹‹ Ma no!... Però non mi sorprende... La verità è che non ne possono più delle signore dell’Upper East Side... tutte uguali!... Si annoiano... Quando capita qualcuno di diverso, come te... che balli persino... è un tale sollievo uscire dalla routine! Ti vedono... vedono la grazia, la simpatia, la stravaganza, l’inventività, l’energia, l’entusiasmo... e subito sono presi dalla voglia di fare un regalo. Ogni tanto devono divertirsi un po’ anche loro, poveracci! ››
Trovai la spiegazione molto convincente e, direi, definitiva: perciò non mi restava che andare a casa a vantarmi, anche perché, viste le braccia di Mary stracariche di merce — non era sua abitudine indicare, lei toccava, afferava e teneva —, fossi rimasta, rischiavo il voltastomaco.
‹‹ Guarda un po’! — dissi alla mia ospite tirando fuori le scarpe. — Me l’anno regalate ››.
‹‹ Chi? ››, domandò divertita.
‹‹ Il negozio ››.
‹‹ Scordatelo! ››
‹‹ Ti dico che me le hanno regalate ››.
‹‹ Scordatelo! Quelli non regalano niente. Sarà stata Mary ››.
‹‹ No, me le ha regalate il negozio, ogni tanto lo fanno, quando arriva qualcuno di molto simpatico... ››
‹‹ Scordatelo! Quelli non fanno niente per simpatia. Quelli non fanno regali. Non regalano neanche un kleenex. Le ha pagate Mary, sono sicura ››.
Fosse anche stato vero, il piacere di possederle non sarebbe certo diminuito per questo. Ma il vanto che mi aveva accompagnato per strada, quella certezza di aver meritato le scarpe unicamente perché, avendole indosso, muovevo i piedi a festa, cominciò a vacillare: non era più un pubblico dono per meriti evidenti, ma un dono privato, per affetto personale. Scoprii che era così. Il mattino seguente Mary ammise di averle pagate lei, lo ammise subito, perché tanto, diceva, si capiva benissimo com’era andata. Colpa del commesso, che non aveva fatto bene la sua parte: era stato goffo e frettoloso, mentre avrebbe dovuto accompagnare il dono con una serie di argomenti irrefutabili, seguendo le sue minuziose istruzioni. Purtroppo non era il commesso giusto, il commesso giusto quel giorno non c’era, e lei ne era molto contrariata.
Conservo da circa dieci anni queste scarpe. A vederle sembrano nuove. Difatti, pur essendo comodissime, le metto solo nelle occasioni speciali, che però non saprei dire quali sono, in quanto di solito mi aspetto che siano le occasioni stesse a farsi riconoscere, lì per lì, come speciali, cosa che a dire il vero fanno molto raramente. Questo non mi dispiace, perché meno le uso e meno mi ci abituo, e io mai vorrei abituarmi a loro. Che tristezza per me, il giorno in cui non dovessi più stupirmi di quei colori estremi e imprevisti, del giallo che si sporge e squilla! E che malinconia, se smettessi di bearmi di quella forma, di grazia manierista, che mi fascia teneramente ma con fermezza i piedi, e che dà ai miei passi febbrili e vanitosi la lievità del bene, per cui raggiungono ogni meta senza troppo rumore, quasi galleggiando!
© 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino