da Fuorimondo
Ornela Vorpsi
Io Tamar sono nata sotto il segno del tormento. Ragazzina ho sentito il brivido dello spavento percorrermi il cranio. Sono rimasta ferma dov’ero, al davanzale della vicina, non ho potuto dire a mia madre né a nessun altro di che cosa si trattasse perché nemmeno io sapevo. Ero sospesa con ferocia nella paura, sotto il suo dominio.
È stato cosí che io Tamar ho cominciato ad andare fuorimondo, lontano da tutte le cose che conoscevo, madre padre alberi sedie casa sole. Io non volevo diventare estranea ma succedeva, malgrado me, il brivido decideva secondo i suoi capricci. D’un tratto, tutto quello che conoscevo erano e non erano piú le stesse cose, le stesse persone, gli stessi madre e padre, alberi sedie casa e sole. Tutto assumeva un’ombra piú scura e inquietante, la luce era piú forte, i contrasti esaltati a tal punto che m’infastidivano.
Quante volte sarei corsa a nascondere il viso nel grembo di mia madre con la speranza che tutto sarebbe tornato nella quiete, al posto di sempre. Qualcosa si era rotto, certo, ma dove. Mi sedevo, sforzandomi di immaginare l’interno del mio cervello per individuare la crepa, lo spacco, lo squarcio o non so che, e ogni volta la vedevo materializzarsi nell’incrinatura che percorre il muro a casa di mia nonna a partire da un giorno d’estate, quando un terremoto tracció una linea fine, ma quanto acuta e profonda, spezzandolo a vita. Linea coerente, dal suolo al soffitto. Come i confini sulla carta geografica. C’era una profezia in quel disegno, mostrava la carta geografica del mio cervello, ma non l’avrei rivelato a nessuno, solo il muro io e la mia tomba l’avremmo saputo.
Il primo brivido del tremendo l’ho sentito mentre stavo appoggiata alla finestra di Maria, quella maledetta finestra, e ho pensato che non solo gli umani possono essere maledetti. Da quel giorno sembrava che la finestra si fosse appropriata di un’anima (aveva rubato la mia), per anni ho temuto ad avvicinarmi, persino quando per puro caso il mio sguardo s’imbatteva nel legno bianco o nella maniglia d’acciaio, un allarme cocente mi rendeva tremarella.
Maria era una vecchia signora che aveva avuto l’audacia di mettere al mondo tanti figli. Di notte aspettando il sonno mi applicavo a contare la sua prole, era un esercizio che mi metteva una certa pace, ma non riuscivo mai a contarli tutti, me ne sfuggiva sempre qualcuno. Erano cosí tanti i ragazzi in quella casa, Luka uno, Rudolf due, Pal tre, Mikel, Enea, Artur, Johan, e chissà quanti altri. Poi le mogli dei figli, i figli dei figli. Gatti, cuccioli di gatto. Persino la gatta di Maria sembrava avere piú gravidanze delle altre gatte del quartiere.
Gli scapoli dormivano in un’unica stanza. Sopra il comò, tra i fiordalisi bianchi, sorvegliava una Madonna lacrimante. Non sono mai potuta sfuggire al suo sguardo, il dolore sul viso camuffava la vera ragione per la quale si trovava sopra il comò, ma il dipinto era sempre vigile e controllava la stanza. Maria l’aveva appeso con un’intenzione ben chiara, e per questo ripeteva senza stancarsi mostrandoci la tela con un dito minaccioso, Fate attenzione, Dio guarda tutto!
Il Dio tra le braccia della Madonna era un bambino boccoli d’oro con gli occhi blu e di aspetto molto serio. Mi chiedevo di continuo perché mai il bambino Dio era cosí serio, perché mai. Malgrado crescessi sotto gli occhi di quella tela, malgrado fossi a casa di Maria quasi ogni giorno, non mi ero mai abituata alla serietà del Dio bambino, aveva sempre un non so che di nuovo. Quegli occhi mi facevano sentire in colpa.
Non ho fatto niente di male, canticchiavo, e m’incantavo sulle mie scarpe cercando di riunire in un baleno la mia breve esistenza come un piccolo film per scovare lo sbaglio. Non ce n’erano di sbagli, anche se ogni tanto avevo buttato il pane dopo aver leccato la marmellata, poi oh certo, questo sí che era terribile, la settimana prima avevo strappato le zampe alle cavallette per guardarle avanzare solo con il tronco. Erano state loro a maledirmi. Chiusi nella scatola di fiammiferi dove li avevo sistemati in fila, quei poveri tronchi si spegnevano piano e senza grida in un silenzio dignitoso di cui io non ero capace.
Attorcigliata dal rimorso pensando al Dio bambino rivedevo l’indice rinsecchito di Maria che me lo mostrava, Attenzione Tamar! Lui vede tutto.
A chi devo chiedere perdono, mi sono domandata, e a voce alta ho detto alle cavallette Scusate, non volevo, credetemi, non so perché l’ho fatto, non ho pensato al male. Ne avevo persino baciata una, sulle labbra era come toccare legno.
Non avevo avuto risposta, i tronchi delle cavallette stavano dentro la scatola in ordine e zitti. Sono corsa affannata verso Esmé, Oh mamma! Mamma, perdonami, mi sono gettata nel suo grembo con gli occhi pieni delle cavallette senza arti e senza suono, chiedendole perdono, immensamente perdono, e lei mi ha detto Alzati adesso, basta, poi si è lisciata le pieghe della gonna.
Ho sotterrato i corpi delle cavallette, sopra la tomba per onorarle ho piantato un soldatino di piombo. Poi sono corsa nella stanza dei figli di Maria, mi sono avvicinata al dipinto del Dio bambino e l’ho guardato fisso senza battere le ciglia, Io Tamar non ho fatto niente di male, perché mi fai sentire in colpa?
*
I corpi nudi dei giovanotti giacevano scomposti. Otto o nove corpi liberi sudati d’estate e di sonno, muscoli pronunciati che sussultavano ogni tanto scompigliando per un secondo la pelle raggiante. Delle belle mani, oh che belle mani. Di chi sono. Di Rudolf o di Artur. Le loro gambe a volte s’intrecciano. Le canottiere svelano ascelle scure come il fitto mistero della vita. Il fumo delle sigarette si ostina a coprire d’ovatta il dipinto, la Madonna e il bambino affiorano con fatica e poi dissolvono. Benedetto il letto, sospira uno dei ragazzi, e i suoi tratti spariscono nel cuscino. Mi avvicino nella penombra per seguire un odore senza sapere a chi appartiene, e in un lampo le mie gambe ordinano Appoggiati Tamar, perché perderai i sensi, appoggiati perché sei frangibile.
Il ritornello dei passi vigorosi di Maria tra il cortile e le stanze teneva in ordine la casa, come un pendolo che divide il tempo in perfetti secondi.
Ancora lí, Tamar?, rimproverava. Perché spii il sonno dei ragazzi? Vieni qui, vieni in cucina, non va bene quello che fai, non mi piace. Hai sentito?
Sostavo sulla soglia, immersa nella geometria dei corpi nudi. I respiri frusciavano in un’orchestra di fiati che invitava, Scaraventati in mezzo a questi corpi caldi Tamar!
Maria mi strappava portandomi in cucina, Quant’è strana questa ragazza, ti manca l’educazione, mi senti? Ti manca la limpidezza, e mi guardava intenerita, sarai un’anima persa!
Persa in un pozzo nero, suggeriva la mia immaginazione.
Quando Maria mi consigliava di tenermi limpida, altrimenti la mia anima sarebbe andata persa, io Tamar rivedevo le gocce trasparenti della grappa che lei amava tanto, poi la mia anima che sdrucciolava sfera bianca e luminosa nel buio assoluto. Sporgevo dal bordo del pozzo rischiando di cadere ma non c’era piú nulla da fare, la mia anima era andata persa.
Zitta e composta pensavo che era un grande privilegio sedere vicino a una persona come Maria, che pure la morte la teme, Va’ a sapere Tamar, questa anziana vigorosa con tanto di fede ti salverà dal pozzo nero, perché anche se non sai dov’è puoi starne certa, quel nero esiste, l’hai incontrato proprio al davanzale della sua finestra.
Su piccola, cosa aspetti, massaggiami le mani.
Pronunciata la richiesta, Maria solleva il suo immancabile bicchierino offrendo a Pal un po’ di grappa. Pal è l’unico dei suoi figli che merita quelle limpide e benefiche lacrime. È cosí che Maria chiama le gocce di grappa, Pal mio, vuoi due lacrime?, e le fa scendere amorevolmente nel bicchiere, contandole con un sorriso che ha la solennità di un rito (piú tardi nasconderà la bottiglia sfuggendo ogni ombra d’occhio curioso a destra e a manca).
Solo Pal ha costruito la sua esistenza perché fosse degna delle lacrime diamantine della madre. Con il suo buon matrimonio le ha portato Hera, insostituibile nei lavori di casa, mai annoiata di lavare i panni di tutti i figli di Maria, innumerevoli senza fine. La giovane donna va avanti e indietro tra lavatrice e letti, e poi, chissà perché, riempie non so quante bacinelle d’acqua e le sistema nella lavanderia con misteriosa cura.
Io massaggiavo e viziavo le logore mani di Maria, e appena smettevo la vecchia mi scuoteva e chiedeva impaziente, Ma che hai? Vai avanti!
Era bello stare da Maria, soprattutto i giorni d’estate perché portavano un non so che di noia, con l’asfalto che cambiava forma assecondando il disegno delle suole, il calore ci rendeva lenti e letargici, prosciugava la lingua, regnava sovrano solo il rumore dell’acqua che faceva scorrere Hera per riempire le sue incomprensibili bacinelle.
Potevo andare a vedere la magia dei cuccioli della gatta appena venuti al mondo, sorridere a Enea o ad Artur, per questo rimanevo a sfinirmi sopra quelle mani appassite che mi facevano rabbrividire pensando alla mia lontana ma futura vecchiaia. Vedi Tamar? Un giorno anche le tue mani saranno cosí.
Con qualsiasi scusa Maria chiamava il suo adorato Pal. Pal mio di qua, Pal mio di là.
Pal mio, prendi un goccio accanto a me, hai lavorato abbastanza oggi, dài, giusto due lacrime.
*
Alla finestra di Maria ho sentito per la prima volta il brivido che non ho mai potuto indovinare cosa fosse. Di sicuro era un fenomeno che non apparteneva al mondo, o perlomeno al mio, di mondo. Le certezze di prima non si estendevano fino a quel brivido. Ero entrata in una terra che mi separava da tutti, avevo scoperto che c’era una terra, una sorta di campo di nessuno, su cui a volte senza volere mettevo i piedi. Mi trovavo là priva di consolazione, guardavo l’orizzonte color polvere e l’inquietudine spremeva le mie membra.
Stavo appoggiata alla finestra, quella maledetta finestra, e un camioncino giocattolo, uguale a quello appartenuto a mio fratello Rafi e perso da lungo tempo, è apparso sul davanzale per poi sparire nel niente. Cosí, come se il davanzale avesse prodotto il camioncino che noi tutti avevamo cercato per giornate intere.
Ho spostato lo sguardo verso Maria, Hera, Pal per un momento, volevo sciacquare la vista da quell’immagine apparsa dal nulla, e poi di nuovo ho riportato gli occhi sul camioncino di Rafi ancora là, davanti a me, nel mondo, ed era proprio il suo camioncino, certo come la morte. Ho immerso la testa in una delle tante bacinelle di Hera per scongiurare il brivido del tremendo che correva giú dietro la nuca, ho aperto gli occhi nell’acqua, i miei capelli galleggiavano sinuosi e oscuri, come le alghe quella mattina in cui il mare si era ritirato.
Ritornata al davanzale ho allungato il braccio per prendere il giocattolo. L’immagine si è sciolta colando fra le mie dita, poi si è ricomposta camioncino appena ho allontanato la mano.
Non spetta a me prenderlo, mi sono detta, e sono andata a chiamare Esmé per tornare assieme davanti alla finestra di Maria.
Dov’è questo camioncino, ha chiesto irritata, ma il davanzale di Maria l’aveva già inghiottito.
Era là, te lo giuro Esmé. L’ho visto. Solo che non potevo prenderlo.
Non è possibile, smettila.
Ho pensato al Dio bambino, era stato lui a far comparire e scomparire il giocattolo.
Esmé se n’era andata lasciandomi nel cortile di Maria, ho alzato la testa e a voce alta ho detto, I cachi sono maturi, il sole splende. Tutto è cosí ovvio! Tutto è da sempre qui, e tutto per sempre cosí sarà. È promesso. Calmati l’animo Tamar.
I cachi non erano maturi, il cielo era grigio e piovoso, ma mi sono detta di nuovo che Tutto è da sempre qui, e tutto per sempre cosí sarà. È promesso da qualche parte. La vita è sotto controllo, domani ci sarà di nuovo il giorno. Almeno fino a domani. Il mondo non finirà stanotte, non può. Quel camioncino strano non annuncia un bel niente.
I gattini di Maria dormivano sparsi sul ventre della madre. Mi sono sdraiata accanto alla gatta quieta. Calmati l’animo Tamar. È promesso. Tutto è da sempre qui, e tutto per sempre cosí sarà. Anche questi gatti di poche ore lo sanno.
*
Il portone di Maria mostra ancora i segni leggeri sul legno, tracce, incisioni varie, levigature dovute alle mani gracili delle giovani che lo picchiettavano anelanti aspettando di vedere uno dei ragazzi, Rudolf, Artur, Luka, un altro ancora. Se i figli erano distratti, Maria teneva la porta socchiusa e diceva a bassa voce, Mio figlio non è in casa, è uscito, non so quando torna.
In accordo sibillino, le giovani si fermavano in mezzo alla via. Tutte nello stesso punto. Un pezzo di terra dove dapprima stavano immobili per poi vagare nell’attesa, era la geografia dello smarrimento. Qualcuna piangeva, e io Tamar sempre nascosta guardavo insaziabile. Le loro lacrime colavano nei miei polmoni, li riempivano fino a farmi penare il respiro. Nota bene Tamar, il desiderio potrebbe farti ammattire.
Rudolf passava il tempo steso sul divano, era da poco che stava con noi. Ha la pelle scura, capelli lunghi neri che ondeggiano e occhi verdi chiari, porta i jeans, il suo corpo è snello di gioventú, la pelle tesa alla perfezione lungo le braccia, le mani, il petto, le gambe, i piedi. I piedi di Rudolf sono l’essenza dell’uomo, hanno la forza e la mascolinità che mancano al suo viso languido, aggraziato fino all’incredibile. Sulle braccia e sul torace s’intravede una peluria nera luccicante.
Quando è apparso per la prima volta sulla porta del soggiorno usciva direttamente dal fuoco, e io ho sentito i campanelli di un grande pericolo suonare all’impazzata.
Rudolf è il pericolo Tamar, il luogo in cui ti perdi per sempre. È l’irraggiungibile che rende matti, non ti avvicinare. Ma è già tardi. L’hai visto. Sai che esiste.
Lui, il tremendo Rudolf dagli occhi stupore, è steso sul divano, calmo perché ama la calma, mentre all’improvviso un bisogno lacerante mi ordina, Colati lungo il suo corpo, adesso. Subito. Altrimenti il tuo corpo prenderà fuoco. Colati perché se no morirai, e immagina la vergogna quando Esmé, zia Lali, Maria, papà e tutti gli altri verranno a sapere che sei bruciata viva solo perché la tua stupida carne voleva premere la carne di Rudolf, pure sopra la camicia, pure sopra i jeans.
Se mi fossi azzardata a farlo, lui mi avrebbe accolto con un sorriso generoso e magari mi avrebbe accarezzato i capelli dicendo, Stai bene Tamar? Perché hai un’aria cosí triste oggi?
Quando le ragazze chiedevano di Artur, Enea, o un altro dei figli di Maria, sapevo che il vero desiderio era Rudolf. Ero certa, Tutte vogliono Dolfi, tutte vengono per Dolfi.
Dolfi è il suo nomignolo. Ogni volta che t’imbatti nei suoi occhi stupore il cuore subisce un tonfo, devi prenderlo e rimetterlo a posto. Ma non è finita, tutti gli organi sobbalzano, dicendoti che hai Trovato, Incontrato, che Qualcosa è successo.
Quello scompiglio è una banale tremarella d’amore, la stessa vecchia roba, ripetuta e logorata quanto l’umano. Ma una cosa è certa, io Tamar non sono innamorata di Dolfi. Non sono mai stata innamorata di Dolfi. I miei organi si scompigliavano per un errore chimico scatenato da quegli occhi, dalle pupille nette profonde come il pozzo in cui si era già persa la mia anima.
Dolfi sorride e una striscia gloriosa di denti bianchi ti spezza e ti fa sentire vinto. Da quel preciso momento sei condannato a bussare alla porta di Maria trovando una scusa qualsiasi solo per vederlo.
La vita è cosí e deve essere cosí, le giovani devono bussare alla porta mentre lui dorme o guarda la televisione, loro se ne vanno a occhi vuoti ma torneranno, non c’è via di salvezza, giacché la striscia forte e gloriosa dei denti di Dolfi ti fa ringraziare, ringraziare chi?
Ho sempre cercato qualcosa da ringraziare per quei denti vittoriosi, quei denti cosí bianchi, nati dalle gengive per farsi ammirare. Era in onore a quella gratuità, a quell’esistere solo per la bellezza, che m’inchinavo davanti a loro. Sono un organo che ha una precisa funzione, i denti, Tamar. Guarda come quelli di Dolfi negano questo ruolo primordiale. Erompono solo per essere leggiadri e tormentare, c’è dell’eroico in tutto ciò.
Dolfi sorrideva, e io capivo dal suo sorriso ingenuo che questa storia dei denti, dei suoi occhi verdi stupore, del suo neo sulla guancia, dei capelli folti, dei peli neri che gli vestivano la pelle di prezioso, non era qualcosa che lui aveva cercato. Io sí che ho cercato di essere bella, ho proprio cercato di essere bella con tutte le mie forze fino al dolore, fino a sentirmi morire, ma a lui, a Dolfi, la bellezza era piovuta addosso, era nato cosí, poverino. Mi viene da dire poverino, Mio Povero Bel Dolfi, lui non c’entrava niente con questa storia del suo splendore.
Fissavo il punto in cui il dente affondava nella gengiva, Ecco Tamar, nota la perfezione che uccide. Tu puoi morire per quei denti.
Perché posso morire?
Perché sono invincibili Tamar, sono la bellezza che non puoi afferrare, mai.
Dolfi non si accorgeva che alla vista di quei denti tanta gente era diventata sua schiava, lui poteva dire a qualcuno o qualcuna, a me, Apri le viscere qui, adesso, le voglio vedere.
L’avrei fatto.
Gettati da questo ponte Tamar, mi piacerebbe vedere come cadi.
Mi sarei buttata proprio davanti ai suoi occhi senza esitazione alcuna.
Allora di certo lui sarebbe venuto vicino, certo mi avrebbe preso in braccio e mi avrebbe detto, Sei stupida Tamar! Era un gioco, la sai la differenza tra il gioco e la vita? Gioco è fare finta, stupida bambina. Finta di cadere.
Non vivevo di Dolfi, né attraverso Dolfi, ma conoscevo la vita bruciata seguendo l’inafferrabile, capivo cos’era morire per Dolfi, per il suo sorriso. Anch’io Tamar sentivo di desiderare qualcosa d’inafferrabile, anche se non potevo dargli un nome. Prendeva tante forme il mio desiderio, intuivo solo che era furbo, che m’ingannava scivolandomi come un’anguilla tra le mani, fra le cosce.
Voglio dire che non ero, non sono innamorata di Dolfi.
*
Certa gente era giorno e notte madre come Maria, certe donne erano nate per essere mogli come Hera e lavare tutti i panni di una famiglia senza fine. La gatta avrebbe portato a casa i cuccioli ogni autunno, Dolfi sarebbe stato sempre giovane, i suoi denti eternamente bianchi. Le ragazze avrebbero continuato a bussare alla porta, io Tamar sarei stata sempre una spettatrice e ogni tanto avrei sentito quel brivido strano che mi percorre il cranio e mi allontana da tutto. Nasciamo e tutto è già determinato, i ruoli sono distribuiti.
Il ruolo di Dolfi era incarnare il viso e il corpo dell’amore, le promesse eterne, gli eterni struggimenti. Quello di Maria era essere madre e nient’altro. Hera lavava i suoi panni.
Perché riempi tutte queste bacinelle d’acqua, Hera?
Non lo so.
Conta quante sono! Nove! Nove bacinelle d’acqua. Ma perché?
Per pulirsi Tamar, non ci si pulisce mai abbastanza.
La sua schiena curva magra sulle bacinelle confessava, Hera non sa nemmeno che esistono dei ruoli.
Pensare al ruolo, non amare il ruolo, volerlo cambiare, soprattutto volerlo cambiare, aveva qualcosa a che fare con il tormento e con il brivido nel mio cranio. Io Tamar non ho scelto di pensare al mio ruolo, mi è capitato, proprio come la bellezza a Dolfi, come l’amaro a Esmé, la morte a Rafi e i seni imperiosi a Lali.
Mi chiedevo se qualcuno sarebbe mai bruciato per sdraiarsi accanto a me come si brucia dalla voglia di sdraiarsi accanto a Dolfi, se qualcuno con una scusa qualsiasi sarebbe mai venuto solo per avermi vicino.
Alla mia porta non bussavano fragili mani. Nessuno aveva mai pianto immobile smarrito sui centimetri di terra davanti a casa mia, la gente mi passava attorno, mi attraversava, non mi vedeva, sono trasparente.
*
Manuela veniva tutti i giorni nella nostra via, era lei la ragazza che indugiava di piú nella terra dello smarrimento. Una volta sola è stata assente una settimana, mi ero allarmata, avevo pensato che fosse morta, ero convinta, la vedevo circondata di fiori dentro una bara nera luccicante di vernice, i suoi occhi scialbi erano semichiusi. Volevo correre da Dolfi e dirgli Manuela è morta, però mi sono fermata, ho deciso di darmi una data limite, se non la vedo fino a martedí, dico a Dolfi che la ragazza che piangeva per lui è morta.
È ricomparsa lunedí piú pallida e magra che mai. Il mio cuore ha trasalito come se fosse tornata dall’aldilà, fiordalisi funebri ornavano i suoi capelli.
Quel giorno non si è avvicinata alla porta del suo innamorato, e neppure il giorno dopo. Si è solo appoggiata al muro come punita. Non osava bussare, faceva avanti e indietro, parlava da sola, poi aggiustava il vestito, giocava con i piedi fingendo di camminare su un filo.
Il suo stare aveva un che di eroico, uguale alla striscia gloriosa dei denti di Dolfi. Disegnava nella polvere con la punta dei sandali, alzando di tanto in tanto lo sguardo verso la porta. Quello sguardo lo conoscevo già prima di nascere, era impresso nei corridoi bui della mia mente, incrostato nella pelle da quando ero frattaglie tra le viscere di Esmé. Sapevo che Manuela in quei momenti era senza organi, un corpo pieno d’acqua salata e nient’altro. Per questo stava appoggiata al muro, se no quel sangue diventato acqua sarebbe diluviato dai suoi occhi scialbi spaventando Dolfi e l’amore.
È fragile l’amore, basta un niente per dissolverlo, mi aveva rivelato Esmé.
Era successo anche a me due o tre volte nella vita, i miei organi partivano in pellegrinaggio, lo spazio interno del corpo si riempiva d’acqua salata, mi muovevo a stento e con cautela perché il minimo sfiorare della pelle faceva uscire gocce corrosive dagli occhi. Proprio come Manuela.
Appena Maria usciva lei si nascondeva, sempre composta e con una certa dignità.
La dignità di una ragazza non bella, mi ha suggerito la voce in me, una grazia nata dalla mancanza di bellezza. Il fatto che non fosse bella me l’aveva resa cara, anzi ero affezionata a Manuela, la sentivo sorella, ero legata a lei da un’amicizia segreta. Volevo fare tante cose per lei, la volevo aiutare perché era languida di melanconia, perché ci assomigliavamo malgrado una grande differenza, lei era innamorata di Dolfi, io no, io amavo guardare Dolfi.
Per due giorni Manuela è rimasta nascosta in attesa, alla fine del secondo giorno Dolfi è uscito di casa e lei gli è corsa dietro, l’ha fermato afferrandogli il braccio che non ha lasciato piú.
L’aveva spinto contro il muro e gli parlava. Ostinatamente cercavo di leggere i movimenti delle sue labbra, cosa diceva cosí a lungo. Era solo lei a parlare e a tacere, Dolfi dava la sensazione di non ascoltarla nemmeno, guardava in basso. La ragazza l’ha osservato allontanarsi finché è sparito, lui non se n’è reso conto perché non girava mai la testa, per nessuna.
Era felice Dolfi, stava bene, non gli mancava niente.
Come stai Dolfi? Hai bisogno di qualcosa?
Gli facevo questa domanda che amavo fare a tanti, quasi a tutti, per poi stare attenta, tesa, curiosa fino al dolore aspettando di sapere come sta la gente, come stanno gli altri nella vita. Cercavo degli alleati per reggere meglio la mancanza che sentivo e continuo a sentire.
Volevo che Dolfi mi mostrasse un po’ della sua anima, vedere come s’intrecciavano i suoi fili nel profondo.
Fino a qualche tempo fa stava rinchiuso in una stanza a studiare tutto il giorno, non era possibile parlargli, non l’avevo mai visto da vicino. La sua presenza era il suono del violino e del metronomo. Ero convinta che qualcosa gli mancasse, come succedeva a me, ma al contrario di me faceva finta di niente, magari non lo sapeva. Io non so cosa mi manca. La mia stessa voce accusa alternando le frasi, Ti manca la bellezza Tamar, fossi bella, tutto sarebbe diverso, Ti manca l’amore, Ti manca un grande talento, Ti manca la pace, la luce. È un fatto, vado e vengo a ogni respiro in un vuoto che divora e chiede di essere riempito con urgenza, ma io non so, o meglio, io non ho nulla da dargli, nulla da proporre al mio grande abisso.
Di niente Tamar, rispondeva Dolfi, non ho bisogno di niente. Mi sa che ho tutto quello che devo avere. Sto bene, sono calmo, amo dormire. Amo stare con te, parlare con te. Mi basta la vita che ho, o cerco di farmela bastare.
Ecco. Il mio cuore aveva sussultato, avevo percepito, intravisto, toccato la sua incrinatura. L’aveva anche lui. Nell’innocua frase Cerco di farmela bastare, io Tamar ho scoperto la sua mancanza.
Non sono mai riuscita a capire come ci si possa far bastare la vita quando non ti basta affatto. Per me è impossibile, non so dire sorridendo Mi sa che ho tutto quello che devo avere. Quel mi sa semina il dubbio, rivela il grande sforzo di stare dove si è. Quel mi sa appare tremendo, quando lo sento dire vedo il Dio del giudizio finale, la mano alzata e l’indice che mostra l’imperdonabile. Di punizione severa ha l’aspetto quel mi sa. Io non lo utilizzo.
È stato cosí che io Tamar ho cominciato ad andare fuorimondo, lontano da tutte le cose che conoscevo, madre padre alberi sedie casa sole. Io non volevo diventare estranea ma succedeva, malgrado me, il brivido decideva secondo i suoi capricci. D’un tratto, tutto quello che conoscevo erano e non erano piú le stesse cose, le stesse persone, gli stessi madre e padre, alberi sedie casa e sole. Tutto assumeva un’ombra piú scura e inquietante, la luce era piú forte, i contrasti esaltati a tal punto che m’infastidivano.
Quante volte sarei corsa a nascondere il viso nel grembo di mia madre con la speranza che tutto sarebbe tornato nella quiete, al posto di sempre. Qualcosa si era rotto, certo, ma dove. Mi sedevo, sforzandomi di immaginare l’interno del mio cervello per individuare la crepa, lo spacco, lo squarcio o non so che, e ogni volta la vedevo materializzarsi nell’incrinatura che percorre il muro a casa di mia nonna a partire da un giorno d’estate, quando un terremoto tracció una linea fine, ma quanto acuta e profonda, spezzandolo a vita. Linea coerente, dal suolo al soffitto. Come i confini sulla carta geografica. C’era una profezia in quel disegno, mostrava la carta geografica del mio cervello, ma non l’avrei rivelato a nessuno, solo il muro io e la mia tomba l’avremmo saputo.
Il primo brivido del tremendo l’ho sentito mentre stavo appoggiata alla finestra di Maria, quella maledetta finestra, e ho pensato che non solo gli umani possono essere maledetti. Da quel giorno sembrava che la finestra si fosse appropriata di un’anima (aveva rubato la mia), per anni ho temuto ad avvicinarmi, persino quando per puro caso il mio sguardo s’imbatteva nel legno bianco o nella maniglia d’acciaio, un allarme cocente mi rendeva tremarella.
Maria era una vecchia signora che aveva avuto l’audacia di mettere al mondo tanti figli. Di notte aspettando il sonno mi applicavo a contare la sua prole, era un esercizio che mi metteva una certa pace, ma non riuscivo mai a contarli tutti, me ne sfuggiva sempre qualcuno. Erano cosí tanti i ragazzi in quella casa, Luka uno, Rudolf due, Pal tre, Mikel, Enea, Artur, Johan, e chissà quanti altri. Poi le mogli dei figli, i figli dei figli. Gatti, cuccioli di gatto. Persino la gatta di Maria sembrava avere piú gravidanze delle altre gatte del quartiere.
Gli scapoli dormivano in un’unica stanza. Sopra il comò, tra i fiordalisi bianchi, sorvegliava una Madonna lacrimante. Non sono mai potuta sfuggire al suo sguardo, il dolore sul viso camuffava la vera ragione per la quale si trovava sopra il comò, ma il dipinto era sempre vigile e controllava la stanza. Maria l’aveva appeso con un’intenzione ben chiara, e per questo ripeteva senza stancarsi mostrandoci la tela con un dito minaccioso, Fate attenzione, Dio guarda tutto!
Il Dio tra le braccia della Madonna era un bambino boccoli d’oro con gli occhi blu e di aspetto molto serio. Mi chiedevo di continuo perché mai il bambino Dio era cosí serio, perché mai. Malgrado crescessi sotto gli occhi di quella tela, malgrado fossi a casa di Maria quasi ogni giorno, non mi ero mai abituata alla serietà del Dio bambino, aveva sempre un non so che di nuovo. Quegli occhi mi facevano sentire in colpa.
Non ho fatto niente di male, canticchiavo, e m’incantavo sulle mie scarpe cercando di riunire in un baleno la mia breve esistenza come un piccolo film per scovare lo sbaglio. Non ce n’erano di sbagli, anche se ogni tanto avevo buttato il pane dopo aver leccato la marmellata, poi oh certo, questo sí che era terribile, la settimana prima avevo strappato le zampe alle cavallette per guardarle avanzare solo con il tronco. Erano state loro a maledirmi. Chiusi nella scatola di fiammiferi dove li avevo sistemati in fila, quei poveri tronchi si spegnevano piano e senza grida in un silenzio dignitoso di cui io non ero capace.
Attorcigliata dal rimorso pensando al Dio bambino rivedevo l’indice rinsecchito di Maria che me lo mostrava, Attenzione Tamar! Lui vede tutto.
A chi devo chiedere perdono, mi sono domandata, e a voce alta ho detto alle cavallette Scusate, non volevo, credetemi, non so perché l’ho fatto, non ho pensato al male. Ne avevo persino baciata una, sulle labbra era come toccare legno.
Non avevo avuto risposta, i tronchi delle cavallette stavano dentro la scatola in ordine e zitti. Sono corsa affannata verso Esmé, Oh mamma! Mamma, perdonami, mi sono gettata nel suo grembo con gli occhi pieni delle cavallette senza arti e senza suono, chiedendole perdono, immensamente perdono, e lei mi ha detto Alzati adesso, basta, poi si è lisciata le pieghe della gonna.
Ho sotterrato i corpi delle cavallette, sopra la tomba per onorarle ho piantato un soldatino di piombo. Poi sono corsa nella stanza dei figli di Maria, mi sono avvicinata al dipinto del Dio bambino e l’ho guardato fisso senza battere le ciglia, Io Tamar non ho fatto niente di male, perché mi fai sentire in colpa?
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I corpi nudi dei giovanotti giacevano scomposti. Otto o nove corpi liberi sudati d’estate e di sonno, muscoli pronunciati che sussultavano ogni tanto scompigliando per un secondo la pelle raggiante. Delle belle mani, oh che belle mani. Di chi sono. Di Rudolf o di Artur. Le loro gambe a volte s’intrecciano. Le canottiere svelano ascelle scure come il fitto mistero della vita. Il fumo delle sigarette si ostina a coprire d’ovatta il dipinto, la Madonna e il bambino affiorano con fatica e poi dissolvono. Benedetto il letto, sospira uno dei ragazzi, e i suoi tratti spariscono nel cuscino. Mi avvicino nella penombra per seguire un odore senza sapere a chi appartiene, e in un lampo le mie gambe ordinano Appoggiati Tamar, perché perderai i sensi, appoggiati perché sei frangibile.
Il ritornello dei passi vigorosi di Maria tra il cortile e le stanze teneva in ordine la casa, come un pendolo che divide il tempo in perfetti secondi.
Ancora lí, Tamar?, rimproverava. Perché spii il sonno dei ragazzi? Vieni qui, vieni in cucina, non va bene quello che fai, non mi piace. Hai sentito?
Sostavo sulla soglia, immersa nella geometria dei corpi nudi. I respiri frusciavano in un’orchestra di fiati che invitava, Scaraventati in mezzo a questi corpi caldi Tamar!
Maria mi strappava portandomi in cucina, Quant’è strana questa ragazza, ti manca l’educazione, mi senti? Ti manca la limpidezza, e mi guardava intenerita, sarai un’anima persa!
Persa in un pozzo nero, suggeriva la mia immaginazione.
Quando Maria mi consigliava di tenermi limpida, altrimenti la mia anima sarebbe andata persa, io Tamar rivedevo le gocce trasparenti della grappa che lei amava tanto, poi la mia anima che sdrucciolava sfera bianca e luminosa nel buio assoluto. Sporgevo dal bordo del pozzo rischiando di cadere ma non c’era piú nulla da fare, la mia anima era andata persa.
Zitta e composta pensavo che era un grande privilegio sedere vicino a una persona come Maria, che pure la morte la teme, Va’ a sapere Tamar, questa anziana vigorosa con tanto di fede ti salverà dal pozzo nero, perché anche se non sai dov’è puoi starne certa, quel nero esiste, l’hai incontrato proprio al davanzale della sua finestra.
Su piccola, cosa aspetti, massaggiami le mani.
Pronunciata la richiesta, Maria solleva il suo immancabile bicchierino offrendo a Pal un po’ di grappa. Pal è l’unico dei suoi figli che merita quelle limpide e benefiche lacrime. È cosí che Maria chiama le gocce di grappa, Pal mio, vuoi due lacrime?, e le fa scendere amorevolmente nel bicchiere, contandole con un sorriso che ha la solennità di un rito (piú tardi nasconderà la bottiglia sfuggendo ogni ombra d’occhio curioso a destra e a manca).
Solo Pal ha costruito la sua esistenza perché fosse degna delle lacrime diamantine della madre. Con il suo buon matrimonio le ha portato Hera, insostituibile nei lavori di casa, mai annoiata di lavare i panni di tutti i figli di Maria, innumerevoli senza fine. La giovane donna va avanti e indietro tra lavatrice e letti, e poi, chissà perché, riempie non so quante bacinelle d’acqua e le sistema nella lavanderia con misteriosa cura.
Io massaggiavo e viziavo le logore mani di Maria, e appena smettevo la vecchia mi scuoteva e chiedeva impaziente, Ma che hai? Vai avanti!
Era bello stare da Maria, soprattutto i giorni d’estate perché portavano un non so che di noia, con l’asfalto che cambiava forma assecondando il disegno delle suole, il calore ci rendeva lenti e letargici, prosciugava la lingua, regnava sovrano solo il rumore dell’acqua che faceva scorrere Hera per riempire le sue incomprensibili bacinelle.
Potevo andare a vedere la magia dei cuccioli della gatta appena venuti al mondo, sorridere a Enea o ad Artur, per questo rimanevo a sfinirmi sopra quelle mani appassite che mi facevano rabbrividire pensando alla mia lontana ma futura vecchiaia. Vedi Tamar? Un giorno anche le tue mani saranno cosí.
Con qualsiasi scusa Maria chiamava il suo adorato Pal. Pal mio di qua, Pal mio di là.
Pal mio, prendi un goccio accanto a me, hai lavorato abbastanza oggi, dài, giusto due lacrime.
*
Alla finestra di Maria ho sentito per la prima volta il brivido che non ho mai potuto indovinare cosa fosse. Di sicuro era un fenomeno che non apparteneva al mondo, o perlomeno al mio, di mondo. Le certezze di prima non si estendevano fino a quel brivido. Ero entrata in una terra che mi separava da tutti, avevo scoperto che c’era una terra, una sorta di campo di nessuno, su cui a volte senza volere mettevo i piedi. Mi trovavo là priva di consolazione, guardavo l’orizzonte color polvere e l’inquietudine spremeva le mie membra.
Stavo appoggiata alla finestra, quella maledetta finestra, e un camioncino giocattolo, uguale a quello appartenuto a mio fratello Rafi e perso da lungo tempo, è apparso sul davanzale per poi sparire nel niente. Cosí, come se il davanzale avesse prodotto il camioncino che noi tutti avevamo cercato per giornate intere.
Ho spostato lo sguardo verso Maria, Hera, Pal per un momento, volevo sciacquare la vista da quell’immagine apparsa dal nulla, e poi di nuovo ho riportato gli occhi sul camioncino di Rafi ancora là, davanti a me, nel mondo, ed era proprio il suo camioncino, certo come la morte. Ho immerso la testa in una delle tante bacinelle di Hera per scongiurare il brivido del tremendo che correva giú dietro la nuca, ho aperto gli occhi nell’acqua, i miei capelli galleggiavano sinuosi e oscuri, come le alghe quella mattina in cui il mare si era ritirato.
Ritornata al davanzale ho allungato il braccio per prendere il giocattolo. L’immagine si è sciolta colando fra le mie dita, poi si è ricomposta camioncino appena ho allontanato la mano.
Non spetta a me prenderlo, mi sono detta, e sono andata a chiamare Esmé per tornare assieme davanti alla finestra di Maria.
Dov’è questo camioncino, ha chiesto irritata, ma il davanzale di Maria l’aveva già inghiottito.
Era là, te lo giuro Esmé. L’ho visto. Solo che non potevo prenderlo.
Non è possibile, smettila.
Ho pensato al Dio bambino, era stato lui a far comparire e scomparire il giocattolo.
Esmé se n’era andata lasciandomi nel cortile di Maria, ho alzato la testa e a voce alta ho detto, I cachi sono maturi, il sole splende. Tutto è cosí ovvio! Tutto è da sempre qui, e tutto per sempre cosí sarà. È promesso. Calmati l’animo Tamar.
I cachi non erano maturi, il cielo era grigio e piovoso, ma mi sono detta di nuovo che Tutto è da sempre qui, e tutto per sempre cosí sarà. È promesso da qualche parte. La vita è sotto controllo, domani ci sarà di nuovo il giorno. Almeno fino a domani. Il mondo non finirà stanotte, non può. Quel camioncino strano non annuncia un bel niente.
I gattini di Maria dormivano sparsi sul ventre della madre. Mi sono sdraiata accanto alla gatta quieta. Calmati l’animo Tamar. È promesso. Tutto è da sempre qui, e tutto per sempre cosí sarà. Anche questi gatti di poche ore lo sanno.
*
Il portone di Maria mostra ancora i segni leggeri sul legno, tracce, incisioni varie, levigature dovute alle mani gracili delle giovani che lo picchiettavano anelanti aspettando di vedere uno dei ragazzi, Rudolf, Artur, Luka, un altro ancora. Se i figli erano distratti, Maria teneva la porta socchiusa e diceva a bassa voce, Mio figlio non è in casa, è uscito, non so quando torna.
In accordo sibillino, le giovani si fermavano in mezzo alla via. Tutte nello stesso punto. Un pezzo di terra dove dapprima stavano immobili per poi vagare nell’attesa, era la geografia dello smarrimento. Qualcuna piangeva, e io Tamar sempre nascosta guardavo insaziabile. Le loro lacrime colavano nei miei polmoni, li riempivano fino a farmi penare il respiro. Nota bene Tamar, il desiderio potrebbe farti ammattire.
Rudolf passava il tempo steso sul divano, era da poco che stava con noi. Ha la pelle scura, capelli lunghi neri che ondeggiano e occhi verdi chiari, porta i jeans, il suo corpo è snello di gioventú, la pelle tesa alla perfezione lungo le braccia, le mani, il petto, le gambe, i piedi. I piedi di Rudolf sono l’essenza dell’uomo, hanno la forza e la mascolinità che mancano al suo viso languido, aggraziato fino all’incredibile. Sulle braccia e sul torace s’intravede una peluria nera luccicante.
Quando è apparso per la prima volta sulla porta del soggiorno usciva direttamente dal fuoco, e io ho sentito i campanelli di un grande pericolo suonare all’impazzata.
Rudolf è il pericolo Tamar, il luogo in cui ti perdi per sempre. È l’irraggiungibile che rende matti, non ti avvicinare. Ma è già tardi. L’hai visto. Sai che esiste.
Lui, il tremendo Rudolf dagli occhi stupore, è steso sul divano, calmo perché ama la calma, mentre all’improvviso un bisogno lacerante mi ordina, Colati lungo il suo corpo, adesso. Subito. Altrimenti il tuo corpo prenderà fuoco. Colati perché se no morirai, e immagina la vergogna quando Esmé, zia Lali, Maria, papà e tutti gli altri verranno a sapere che sei bruciata viva solo perché la tua stupida carne voleva premere la carne di Rudolf, pure sopra la camicia, pure sopra i jeans.
Se mi fossi azzardata a farlo, lui mi avrebbe accolto con un sorriso generoso e magari mi avrebbe accarezzato i capelli dicendo, Stai bene Tamar? Perché hai un’aria cosí triste oggi?
Quando le ragazze chiedevano di Artur, Enea, o un altro dei figli di Maria, sapevo che il vero desiderio era Rudolf. Ero certa, Tutte vogliono Dolfi, tutte vengono per Dolfi.
Dolfi è il suo nomignolo. Ogni volta che t’imbatti nei suoi occhi stupore il cuore subisce un tonfo, devi prenderlo e rimetterlo a posto. Ma non è finita, tutti gli organi sobbalzano, dicendoti che hai Trovato, Incontrato, che Qualcosa è successo.
Quello scompiglio è una banale tremarella d’amore, la stessa vecchia roba, ripetuta e logorata quanto l’umano. Ma una cosa è certa, io Tamar non sono innamorata di Dolfi. Non sono mai stata innamorata di Dolfi. I miei organi si scompigliavano per un errore chimico scatenato da quegli occhi, dalle pupille nette profonde come il pozzo in cui si era già persa la mia anima.
Dolfi sorride e una striscia gloriosa di denti bianchi ti spezza e ti fa sentire vinto. Da quel preciso momento sei condannato a bussare alla porta di Maria trovando una scusa qualsiasi solo per vederlo.
La vita è cosí e deve essere cosí, le giovani devono bussare alla porta mentre lui dorme o guarda la televisione, loro se ne vanno a occhi vuoti ma torneranno, non c’è via di salvezza, giacché la striscia forte e gloriosa dei denti di Dolfi ti fa ringraziare, ringraziare chi?
Ho sempre cercato qualcosa da ringraziare per quei denti vittoriosi, quei denti cosí bianchi, nati dalle gengive per farsi ammirare. Era in onore a quella gratuità, a quell’esistere solo per la bellezza, che m’inchinavo davanti a loro. Sono un organo che ha una precisa funzione, i denti, Tamar. Guarda come quelli di Dolfi negano questo ruolo primordiale. Erompono solo per essere leggiadri e tormentare, c’è dell’eroico in tutto ciò.
Dolfi sorrideva, e io capivo dal suo sorriso ingenuo che questa storia dei denti, dei suoi occhi verdi stupore, del suo neo sulla guancia, dei capelli folti, dei peli neri che gli vestivano la pelle di prezioso, non era qualcosa che lui aveva cercato. Io sí che ho cercato di essere bella, ho proprio cercato di essere bella con tutte le mie forze fino al dolore, fino a sentirmi morire, ma a lui, a Dolfi, la bellezza era piovuta addosso, era nato cosí, poverino. Mi viene da dire poverino, Mio Povero Bel Dolfi, lui non c’entrava niente con questa storia del suo splendore.
Fissavo il punto in cui il dente affondava nella gengiva, Ecco Tamar, nota la perfezione che uccide. Tu puoi morire per quei denti.
Perché posso morire?
Perché sono invincibili Tamar, sono la bellezza che non puoi afferrare, mai.
Dolfi non si accorgeva che alla vista di quei denti tanta gente era diventata sua schiava, lui poteva dire a qualcuno o qualcuna, a me, Apri le viscere qui, adesso, le voglio vedere.
L’avrei fatto.
Gettati da questo ponte Tamar, mi piacerebbe vedere come cadi.
Mi sarei buttata proprio davanti ai suoi occhi senza esitazione alcuna.
Allora di certo lui sarebbe venuto vicino, certo mi avrebbe preso in braccio e mi avrebbe detto, Sei stupida Tamar! Era un gioco, la sai la differenza tra il gioco e la vita? Gioco è fare finta, stupida bambina. Finta di cadere.
Non vivevo di Dolfi, né attraverso Dolfi, ma conoscevo la vita bruciata seguendo l’inafferrabile, capivo cos’era morire per Dolfi, per il suo sorriso. Anch’io Tamar sentivo di desiderare qualcosa d’inafferrabile, anche se non potevo dargli un nome. Prendeva tante forme il mio desiderio, intuivo solo che era furbo, che m’ingannava scivolandomi come un’anguilla tra le mani, fra le cosce.
Voglio dire che non ero, non sono innamorata di Dolfi.
*
Certa gente era giorno e notte madre come Maria, certe donne erano nate per essere mogli come Hera e lavare tutti i panni di una famiglia senza fine. La gatta avrebbe portato a casa i cuccioli ogni autunno, Dolfi sarebbe stato sempre giovane, i suoi denti eternamente bianchi. Le ragazze avrebbero continuato a bussare alla porta, io Tamar sarei stata sempre una spettatrice e ogni tanto avrei sentito quel brivido strano che mi percorre il cranio e mi allontana da tutto. Nasciamo e tutto è già determinato, i ruoli sono distribuiti.
Il ruolo di Dolfi era incarnare il viso e il corpo dell’amore, le promesse eterne, gli eterni struggimenti. Quello di Maria era essere madre e nient’altro. Hera lavava i suoi panni.
Perché riempi tutte queste bacinelle d’acqua, Hera?
Non lo so.
Conta quante sono! Nove! Nove bacinelle d’acqua. Ma perché?
Per pulirsi Tamar, non ci si pulisce mai abbastanza.
La sua schiena curva magra sulle bacinelle confessava, Hera non sa nemmeno che esistono dei ruoli.
Pensare al ruolo, non amare il ruolo, volerlo cambiare, soprattutto volerlo cambiare, aveva qualcosa a che fare con il tormento e con il brivido nel mio cranio. Io Tamar non ho scelto di pensare al mio ruolo, mi è capitato, proprio come la bellezza a Dolfi, come l’amaro a Esmé, la morte a Rafi e i seni imperiosi a Lali.
Mi chiedevo se qualcuno sarebbe mai bruciato per sdraiarsi accanto a me come si brucia dalla voglia di sdraiarsi accanto a Dolfi, se qualcuno con una scusa qualsiasi sarebbe mai venuto solo per avermi vicino.
Alla mia porta non bussavano fragili mani. Nessuno aveva mai pianto immobile smarrito sui centimetri di terra davanti a casa mia, la gente mi passava attorno, mi attraversava, non mi vedeva, sono trasparente.
*
Manuela veniva tutti i giorni nella nostra via, era lei la ragazza che indugiava di piú nella terra dello smarrimento. Una volta sola è stata assente una settimana, mi ero allarmata, avevo pensato che fosse morta, ero convinta, la vedevo circondata di fiori dentro una bara nera luccicante di vernice, i suoi occhi scialbi erano semichiusi. Volevo correre da Dolfi e dirgli Manuela è morta, però mi sono fermata, ho deciso di darmi una data limite, se non la vedo fino a martedí, dico a Dolfi che la ragazza che piangeva per lui è morta.
È ricomparsa lunedí piú pallida e magra che mai. Il mio cuore ha trasalito come se fosse tornata dall’aldilà, fiordalisi funebri ornavano i suoi capelli.
Quel giorno non si è avvicinata alla porta del suo innamorato, e neppure il giorno dopo. Si è solo appoggiata al muro come punita. Non osava bussare, faceva avanti e indietro, parlava da sola, poi aggiustava il vestito, giocava con i piedi fingendo di camminare su un filo.
Il suo stare aveva un che di eroico, uguale alla striscia gloriosa dei denti di Dolfi. Disegnava nella polvere con la punta dei sandali, alzando di tanto in tanto lo sguardo verso la porta. Quello sguardo lo conoscevo già prima di nascere, era impresso nei corridoi bui della mia mente, incrostato nella pelle da quando ero frattaglie tra le viscere di Esmé. Sapevo che Manuela in quei momenti era senza organi, un corpo pieno d’acqua salata e nient’altro. Per questo stava appoggiata al muro, se no quel sangue diventato acqua sarebbe diluviato dai suoi occhi scialbi spaventando Dolfi e l’amore.
È fragile l’amore, basta un niente per dissolverlo, mi aveva rivelato Esmé.
Era successo anche a me due o tre volte nella vita, i miei organi partivano in pellegrinaggio, lo spazio interno del corpo si riempiva d’acqua salata, mi muovevo a stento e con cautela perché il minimo sfiorare della pelle faceva uscire gocce corrosive dagli occhi. Proprio come Manuela.
Appena Maria usciva lei si nascondeva, sempre composta e con una certa dignità.
La dignità di una ragazza non bella, mi ha suggerito la voce in me, una grazia nata dalla mancanza di bellezza. Il fatto che non fosse bella me l’aveva resa cara, anzi ero affezionata a Manuela, la sentivo sorella, ero legata a lei da un’amicizia segreta. Volevo fare tante cose per lei, la volevo aiutare perché era languida di melanconia, perché ci assomigliavamo malgrado una grande differenza, lei era innamorata di Dolfi, io no, io amavo guardare Dolfi.
Per due giorni Manuela è rimasta nascosta in attesa, alla fine del secondo giorno Dolfi è uscito di casa e lei gli è corsa dietro, l’ha fermato afferrandogli il braccio che non ha lasciato piú.
L’aveva spinto contro il muro e gli parlava. Ostinatamente cercavo di leggere i movimenti delle sue labbra, cosa diceva cosí a lungo. Era solo lei a parlare e a tacere, Dolfi dava la sensazione di non ascoltarla nemmeno, guardava in basso. La ragazza l’ha osservato allontanarsi finché è sparito, lui non se n’è reso conto perché non girava mai la testa, per nessuna.
Era felice Dolfi, stava bene, non gli mancava niente.
Come stai Dolfi? Hai bisogno di qualcosa?
Gli facevo questa domanda che amavo fare a tanti, quasi a tutti, per poi stare attenta, tesa, curiosa fino al dolore aspettando di sapere come sta la gente, come stanno gli altri nella vita. Cercavo degli alleati per reggere meglio la mancanza che sentivo e continuo a sentire.
Volevo che Dolfi mi mostrasse un po’ della sua anima, vedere come s’intrecciavano i suoi fili nel profondo.
Fino a qualche tempo fa stava rinchiuso in una stanza a studiare tutto il giorno, non era possibile parlargli, non l’avevo mai visto da vicino. La sua presenza era il suono del violino e del metronomo. Ero convinta che qualcosa gli mancasse, come succedeva a me, ma al contrario di me faceva finta di niente, magari non lo sapeva. Io non so cosa mi manca. La mia stessa voce accusa alternando le frasi, Ti manca la bellezza Tamar, fossi bella, tutto sarebbe diverso, Ti manca l’amore, Ti manca un grande talento, Ti manca la pace, la luce. È un fatto, vado e vengo a ogni respiro in un vuoto che divora e chiede di essere riempito con urgenza, ma io non so, o meglio, io non ho nulla da dargli, nulla da proporre al mio grande abisso.
Di niente Tamar, rispondeva Dolfi, non ho bisogno di niente. Mi sa che ho tutto quello che devo avere. Sto bene, sono calmo, amo dormire. Amo stare con te, parlare con te. Mi basta la vita che ho, o cerco di farmela bastare.
Ecco. Il mio cuore aveva sussultato, avevo percepito, intravisto, toccato la sua incrinatura. L’aveva anche lui. Nell’innocua frase Cerco di farmela bastare, io Tamar ho scoperto la sua mancanza.
Non sono mai riuscita a capire come ci si possa far bastare la vita quando non ti basta affatto. Per me è impossibile, non so dire sorridendo Mi sa che ho tutto quello che devo avere. Quel mi sa semina il dubbio, rivela il grande sforzo di stare dove si è. Quel mi sa appare tremendo, quando lo sento dire vedo il Dio del giudizio finale, la mano alzata e l’indice che mostra l’imperdonabile. Di punizione severa ha l’aspetto quel mi sa. Io non lo utilizzo.