Lo splendore del niente

Maria Attanasio

Artwork by Genevieve Leong

Premessa

A scorrere l’elenco telefonico non si trova traccia del cognome Perremuto, tra il Sei e il Settecento, appartenuto a una superba famiglia al centro della vita politica di Calacte, il cui grande palazzo rinascimentale, nel Piano di San Giuliano, era sopravvissuto indenne al terremoto: nello stemma nobiliare, ben in vista sul portone, campeggiava l’imperitura testa di una fiera a fauci aperte, minaccioso avvertimento a chi si accingeva a oltrepassare la soglia.

Ma nei primi decenni dell’Ottocento la discendenza maschile si era già estinta, e il cognome sperso in anonimi labirinti genetici. Il palazzo cambiò nome e proprietà: diventò Palazzo Crescimanno.

Con tale nome continua a essere indicato, ma i locali del piano terreno sono adesso affittati a piccole botteghe artigiane, mentre nei miniappartamenti del piano alto abitano rispettabili professionisti in transito lavorativo a Calacte.

Solo tra gli arredi e gli affreschi dei silenziosi saloni del piano centrale resistono impercettibili echi di un irrevocabile passato.





Primo movimento:
Donna Innocenza Palmieri

Non ci furono scaldini, conche, ardenti camini che potessero bastare, in quel freddissimo inverno del 1699, a riscaldare gli ampi saloni del palazzo tra cui, in attesa di sgravare da un momento all’altro, tutta imbacuccata si aggirava Donna Innocenza Palmieri.

Ma la nascita di Ignazia—prima femmina dopo sei figli maschi—fece subito dimenticare l’apocalittico freddo all’infreddolita baronessa e gli irreparabili danni delle gelate nei seminativi al barone Federico Perremuto, entrambi totalmente assorbiti dai preparativi per festeggiare degnamente, sul finire della primavera, quella nascita: una sfarzosa festa che sancisse la nobile appartenenza della neonata Ignazia, ribadendo il prestigio e l’egemonia della famiglia nella città.

Una ventata di rinnovamento attraversò il palazzo; il velluto rosso delle tappezzerie fu sostituito con le delicate tonalità pastello di una fine seta damascata, mentre i massicci arredi lasciarono il posto a una mobilia più leggera e aggraziata che maestri d’ascia e decoratori, appositamente venuti dalla capitale, realizzarono nel nuovo stile in voga a Napoli e a Parigi.

Ma la sera del memorabile ricevimento la festeggiata Ignazia pianse tutto il tempo a dirotto mentre la baronessa la mostrava, confusa e imbarazzata, agli insigni convenuti: una cosa paonazza e stizzita tra nastri e merletti.



*

Donna Innocenza Palmieri aveva desiderato con tutte le sue forze quella figlia, e che sarebbe stata femmina l’aveva saputo fin dal primo mese di gravidanza.

La notte del concepimento—successivamente si convinse che proprio quella era stata la notte—a differenza di altre volte che per ore restava insonne e agitata, si addormentò subito; sognò una sua sorella morta bambina per infezione di cavallette che porgendole un lume acceso le disse: «Sono venuta a portarti questa luce», mentre la stanza si riempiva di invisibili voci infantili.

Intuì un presagio di buona speranza che lì per lì non seppe decifrare.

Il senso del sogno le fu chiaro circa un mese dopo, quando le sentinelle sugli spalti avvistarono un mobile punto nero all’orizzonte e diedero l’allarme. Dall’alto di torri e balconi, di tetti e campanili, ogni cittadino seguì con la morte nel cuore il fatale avanzare delle cavallette.

Anche Donna Innocenza affacciata al più alto dei suoi balconi vide il piccolo punto in movimento dilatarsi in vasta e oscura nube che con orribile stridore si avvicinava alla città, ma la nube passò senza fermarsi, sparendo verso occidente.

D’improvviso le fu chiaro il legame tra il sogno e il passaggio, senza soste e danni, delle funeste locuste che trent’anni prima avevano invece causato la morte della sorella: vivo sarebbe nato il suo settimo figlio. E femmina.



*

Ignazia non fu la figlia docile che aveva immaginato, ma un’ostinata bambina in perpetua lite con i fratelli che spesso riempiva di strilli e di gorgheggi i severi saloni del palazzo: più di ogni cosa infatti le piaceva cantare.

Non ancora adolescente Donna Innocenza per farle piacere la condusse per la prima volta ad una festa teatrale. L’eccitazione della figlia per la novità dell’evento si trasformò in concentrato rapimento quando il canto del sopranista dilagò alto e limpido nella stellata notte, decrescendo infine in melodioso sussurro.

Ma alla fine della prima parte imprevedibilmente Ignazia salì sul palcoscenico, cominciando a voce spiegata a gorgheggiare. Caparbiamente: la dovettero trascinare via di peso.

Per una settimana fu castigata nella sua stanza all’isolamento e al silenzio. La serva che l’accudiva riferiva ai genitori che la bambina con monotonia e ostinazione ripeteva: «Perché sono femminella, io no?».



*

Donna Innocenza restò disorientata dalla domanda della sua amatissima figlia che sembrava non riconoscere l’ordine naturale delle cose: che cantano gli uomini, i castrati, e mai le donne. Che così era il mondo, dai tempi dei tempi. E sempre sarà.

Per toglierle quell’orribile cosa dalla testa, le fu vietato di cantare. E Ignazia non cantò più. Ma non riuscì più a condurla a teatro—nemmeno l’inflessibile barone ci riuscì: con lei troppo arrendevole—e quando per dovere d’obbedienza il Direttore spirituale ve la costrinse, Ignazia nulla vide e nulla sentì: né le eleganti tolette delle dame, né l’animazione delle scene, né il sublime contrasto tra il contraltista e il sopranista, come fu costretta a confessare a Padre Antonio Macusi, messo sull’avviso da una donna che l’aveva vista starsene tutta la sera a occhi chiusi, come dormiente.



*

Fu la prima delle inquietanti domande che, talvolta dopo giorni di scontroso silenzio, la figlia adolescente all’improvviso le poneva. Una volta mentre lei le stava raccontando del sogno premonitore della sua nascita, bruscamente le chiese: «E io dov’ero prima della nascita? Dov’era il mio corpo di carne, la mia anima di fiamma?».

Donna Innocenza rimase sbalordita e senza parole.

Ignazia era esattamente l’opposto di ciò che lei si aspettava: da capricciosa bambina si era trasformata in eccentrica giovinetta che rifiutava la vita di società preferendo al comodo e al lusso del suo palazzo un’angusta stanzetta nella zona servile. Era obbediente, ma di un’obbedienza asciutta, doverosa, da cui la madre si sentiva più intimidita che soddisfatta: un’obbedienza talvolta apertamente rifiutata; e per evitare che la fragile e ostinata Ignazia morisse per fame o impazzisse per il troppo pensare, aveva dovuto chiedere il deciso intervento di Padre Antonio Macusi, che le aveva drasticamente limitato il digiuno solo all’Avvento e le troppe letture ai soli libri di devozione.

Man mano che passavano gli anni la baronessa sentiva un invalicabile muro sempre più dolorosamente separarla dalla sua singolare figlia, tanto diversa dalle figlie delle altre dame: disprezzava ogni femminile apparato inseguendo solo i percorsi tortuosi della sua mente, come se anima e corpo, religiosa devozione e mondana bellezza fossero in perpetua guerra.

Ormai ventenne Ignazia ancora in quella disadorna stanza se ne stava: tutto il giorno a pregare, a scrivere, a digiunare, come se un inconsolabile lutto la costringesse.

«Povera figlia mia» sospirava la baronessa, spesso pensando all’ultimo trapasso che a grandi passi per lei e il barone si avvicinava, e all’incerto destino della figlia nella cui testa giravano allarmanti domande e inaccessibili pensieri.





Secondo movimento:
Il conte Otto Ferdinand Trahun

Le inaccessibili stanze dell’arroccato castello interiore di Ignazia, che tanto angustiavano Donna Innocenza, suscitarono l’intenso interesse del conte Otto Ferdinand Trahun, nel tardo autunno del 1719 ospite per qualche tempo nel palazzo del barone Perremuto.

Quell’anno molti furono i diplomatici e i militari, che parlavano tedesco, in transito o di stanza in Sicilia per preparare il passaggio dell’isola all’imperatore d’Austria Carlo VI a cui con un segreto accordo, l’anno prima, il re di Sicilia Vittorio Amedeo II di Savoia l’aveva ceduta in cambio della Sardegna. Profonda era stata la delusione dei siciliani, che vedevano sfumare il sogno di un autonomo regno, e rabbiosa la controffensiva militare della Spagna, che da quasi due decenni ne tentava la riconquista.

Il conte Trahun si trovava in Sicilia fin dall’inizio dell’anno, impegnato nei campi di battaglia e, di tanto in tanto, anche in delicate missioni diplomatiche, come quella di quel dicembre; in viaggio da Palermo a Siracusa, pensava infatti di fermarsi a Calacte: il tempo per riservati abboccamenti con i notabili dell’importante capoluogo di circoscrizione e per far riposare uomini e cavalli dalle fatiche del lungo e disagevole percorso.

Abituato ai nevosi inverni del Nord, era stordito dal fulgore di luce decembrina che lo accompagnava durante il viaggio: avrebbe preferito un cielo annuvolato e una rinfrescante pioggia.

In Sicilia non pioveva da mesi—era quello l’inizio di un lungo periodo di siccità che si protrarrà fino al 1724—e in tutte le città che attraversava, trovava una grande mobilitazione religiosa: processioni, esposizioni di santi e di reliquie, pubbliche espiazioni che osservava con tollerante scetticismo.

Per il luterano e colto conte le religioni tutte si assomigliavano, e tutte—come il luogo di nascita, le ricchezze, la famiglia—erano casuale e involontario destino, ma, se con saggezza gestite, potevano ben servire al governo del mondo.

Non aveva particolare attenzione per la religione, ma poiché bisognava di necessità averne una, si teneva quella dei suoi parenti e del suo paese, rispettosamente seguendo la dottrina di Lutero.



*

La prima volta che il conte Trahun la vide, così dimessa e ordinaria in confronto alle morbide forme e alla raffinata eleganza della baronessa, non riuscì a trattenere un moto di sorpresa: Ignazia era in totale contrasto con lo sfarzo, i comodi e gli agi domestici del palazzo.

Quando però, durante la cena, ne incrociò gli occhi grigi—più curiosi che diffidenti verso il suo accento straniero—ne avvertì subito l’igneo temperamento. Ne ebbe conferma dopo il pasto serale, dalla conversazione che con lei intrattenne: un delizioso rituale che ogni sera si ripeté, tra lo stupore e l’inattesa speranza dei genitori.

Da mesi abituato agli elaborati e defatiganti cerimoniali verbali della nobiltà siciliana, restò fortemente impressionato dalla frontalità e dal lucido intelletto della giovane donna che intensamente e senza riserve si coinvolgeva nella discussione, specie su temi religiosi.

E lui—per trattenerla—ogni sera insisteva su quei temi, il cui sviluppo era imprevedibile, finendo talvolta in un accanito contraddittorio teologico, talaltra in intime e malinconiche riflessioni sull’esistenza. In questi casi fortemente lo turbava la radicale affermazione del niente di Ignazia.

«Tengo sempre innanzi agli occhi della mente che prima di venire al mondo ero niente; dappocché fui venuta: fui e son peccatrice. E quando passerò di questa vita il mio corpo diverrà cenere», gli aveva detto una volta: un intransigente no alla vita e all’amore. Al suo amore, pensava desolato il conte che, durante i suoi traffici diurni, attendeva con ansia crescente l’incontro serale, come se l’ulteriore conversazione potesse finalmente aprirgli le asserragliate stanze del suo cuore: capiva che la disponibilità d’Ignazia non era di cuore, ma d’intelletto.

Il conte però compensava il deludente reale con i virtuali e trasgressivi scenari del suo teatro mentale; soprattutto gli piaceva indugiare sull’immagine di lei mentre, in una sobbalzante carrozza, sedeva senza resistenze accanto a lui: sentiva vicinissimo lo scatto ardente della sua mente, le labbra intelligenti, la calda pressione del seno, definitivamente ancorata alle sue braccia che forte la stringevano.

Un’insperata felicità lo invase perciò quando, avendo ormai deciso la partenza per il 17 dicembre, Ignazia, con gli occhi luminosi e febbrili delle sue conversazioni religiose, lo scongiurò di non partire: i proceri avevano già avvisato la città che lo svelamento della Conadomini avrebbe portato la pioggia; e a lei stessa in sogno la Vergine aveva raccomandato di trattenerlo: grandi tempeste l’avrebbero sorpreso lungo la montuosa e difficoltosa rotabile per Siracusa, con rischio di vita.

Più lusingato che convinto dalla passione delle sue parole, rimandò la partenza, promettendole che se la previsione si fosse avverata, sarebbe diventato cattolico.

Dopo mesi di siccità, piovve per giorni.

La piena d’acqua trascinò travi, bestie, suppellettili, e alcuni abitanti dei quartieri bassi della città, di cui non resta memoria.



*

Memorabile fu invece la conversione del conte Trahun che l’anno dopo, nella cattedrale di Messina, tra il gaudio popolare e solenni Te Deum, ricevette il battesimo dalle mani dello stesso vescovo di Patti.

Ignazia ugualmente non accettò la sua proposta di matrimonio, ma, trascurando ogni convenienza sociale, gli scrisse una lunghissima lettera: come un salvacondotto il conte la portò con sé, nei campi di battaglia di tutta Europa dove passò la maggior parte della sua esistenza. In essa trovò sempre sostegno morale e ispirazione esistenziale; a volte anche militare: fu infatti una voce interiore a illuminarlo quando alla fine di agosto del 1744 con manovre trasversali costrinse il re di Prussia a evacuare la Boemia, senza mai dargli possibilità di una battaglia campale.

Ma nei momenti di maggiore smarrimento e oppressione—in mezzo allo sterminato campo di battaglia che era l’Europa della prima metà del Settecento—lo soccorrevano soprattutto i due versi conclusivi di quella lettera; come sublime precetto e lenitivo viatico li ripeteva a se stesso: «Il corpo in ceppi, libera la mente: non servo alcun, né d’altri son che mia».





Terzo movimento:
Padre Antonio Macusi

I

A qualsiasi classe sociale appartenessero, per il direttore spirituale di Ignazia—Padre Antonio Macusi, gesuita e teologo nel Collegio degli Studi—le donne, per naturale inclinazione eccessive, si dividevano in due categorie: le moltissime, utili al vivere civile ma senza spirito e perdute dietro ogni sensibile apparenza; e le pochissime, con troppo spirito e ad essa del tutto refrattarie, che, se povere, diventavano magare, se nobili, monache pazze, nel delirio ritenendosi Terese e Caterine; tutte quante però—monache e magare—prima o poi finendo nei Tribunali della Santa Inquisizione.

E se non fosse stato per il rispetto verso la sua nobile famiglia—pensava avviandosi verso Palazzo Perremuto—anche la matura vergine Ignazia, con la sua ostentazione di diversità rispetto ad ogni naturale e femmineo moto dell’anima e del cuore, da un pezzo ci sarebbe finita: mai gli era capitata un’assistita così ostinata nei suoi proponimenti e così aliena da ogni civile costumanza, come se la ricchezza e la sanità, la gioia e la bellezza non fossero doni di Dio, ma ripugnanti colpe.

Invece di sedersi nel posto che in chiesa il rango e la nobiltà le assegnavano, avviluppata in un sozzo mantello, talvolta si accoccolava sul sagrato insieme a povere disgraziate che, senza risorse e senza famiglia, lì ci stavano per necessità.

«Padre, io son ben vestita, io son ben trattata: a me non manca niente. Dove consiste in me l’esser seguace di un Dio fatto povero per me?» era stata la sicura e orgogliosa risposta di Ignazia al suo fermo richiamo all’obbedienza: era certamente il diavolo—le aveva detto—a suggerirle quegli eccentrici gesti che tanto scompiglio e scandalo portavano nella città e nella sua famiglia.

La sua pretesa santità non lo aveva mai convinto.

Percepiva in lei le oscure resistenze e i presuntuosi convincimenti di un maschio e speculativo intelletto che, in dimessi abiti femminili, cercava in se stesso direzione e assenso, obbedendo spesso soltanto alla forma ed eludendo la sostanza dei suoi divieti, come in tante occasioni era accaduto: Ignazia resisteva ad ogni abbandono, ad ogni altrui affidamento. Anche con lui, il direttore spirituale: per ogni dama unica guida ed esclusivo confidente.

Un eccesso di virtù che camuffava un vizio di superbia, un peccato di ipocrisia: nulla aveva della squisita sensibilità della bella e pietosa Donna Innocenza, ma tutta al barone era, come lui inflessibile e supponente. Da anni perciò le imponeva un duro esercizio d’obbedienza e la mortificazione di ogni sua volontà: lei desiderava entrare in convento, ma lui non gliene aveva mai dato il permesso, né dopo la morte del padre, né adesso che anche la madre era morta. Né mai glielo avrebbe dato. Né le consentiva di frequentare le mistiche teresiane, sue amiche e confidenti, imponendole invece di visitare altre moniali che lei, ritenendole troppo frivole e mondane, avrebbe voluto evitare.

Per umiliarla, ma anche per evitare la sua greve e severa presenza, quando lei, dopo la messa, lo aspettava per parlargli, spesso fingeva di non vederla. Lui andava e tornava, parlava e confessava, o confidenzialmente si appartava con altre assistite, e lei sempre lì ad aspettarlo, silenziosa e immobile per ore: a inseguirlo con le acuminate frecce del suo freddo intelletto che—lui ne era sicuro—giudicava risibile e goffo il suo tentativo di ignorarla.

Provava tuttavia una sorta di pena per quell’esistenza bloccata, senza sviluppo che a volte, infantilmente, come a un padre severo e consapevole si rimetteva a lui: ma se era riuscito a impedirle di ammonacarsi, non era riuscito a persuaderla a maritarsi con il conte Trahun che, ancora dopo dieci anni, le scriveva dai posti più remoti dell’Europa. Non aveva però mai capito l’ostinato rifiuto di Ignazia. Del suo interesse era sicuro: poco dopo la sua partenza in confessione gli aveva raccontato di avere peccato con lui in sogno; l’unica volta che in quelle angolose forme aveva intravisto un’impetuosa natura femminile.

Nonostante la fatica e l’inconfessato disagio morale che quella direzione spirituale gli provocava, Padre Antonio Macusi sentiva che un contraddittorio legame, come quello tra l’usuraio e la sua vittima, lo legava oscuramente alla sua assistita: l’attrazione e insieme il bisogno di fuggire davanti a quell’anima in continua, implacabile ispezione di sé e del mondo, che solo nella contemplazione del suo nulla esistenziale sembrava trovare una transitoria quiete al suo affanno.

Padre Antonio Macusi saliva a passi lenti l’ampio scalone di Palazzo Perremuto, quasi a ritardare il più possibile l’incontro con la donna che, a letto con la febbre, d’urgenza l’aveva mandato a chiamare. Un richiamo a cui non poteva sottrarsi: l’aveva promesso a Donna Innocenza sul letto di morte, che sempre avrebbe vigilato sulla sua maldestra e bisognosa figlia.





II

«Padre, non ritiratevi: chi assisterà alla mia morte? Io m’incammino verso l’eternità» lo supplicò Ignazia, a forza trasferita dall’angusta stanza della zona servile in una più luminosa del piano centrale, e in un letto meno duro del duro pagliericcio che fin dall’adolescenza aveva scelto come giaciglio.

Il direttore spirituale non prese in considerazione né le parole, né la febbre: non era la prima volta che l’eccesso di digiuni, di freddo e l’accanita ricerca di ogni scomodità la costringevano a letto.

«E voi aspettate il mio ritorno, per morire» con scherzosa incredulità le rispose.

Le parole di Ignazia continuarono tuttavia a risuonargli nella mente mentre si avviava verso la carrozza che, dopo ore e ore di fastidiosa rotabile, lo avrebbe portato insieme agli altri confratelli nel lontano ritiro di Aci: una vaga apprensione e un sottile senso di colpa che anche lì, negli otto giorni di esercizi spirituali, di tanto in tanto riaffiorarono.





Quarto movimento:
il delirio

Un brusio di luce obliqua nella stanza.
«Finalmente riposa» mormora rassicurata la serva.
Chiude le imposte. In punta di piedi si allontana.
Nel silenzio il respiro irregolare di Ignazia.
Un gorgogliare di parole, a tratti.



*

«Ignis, fiamma—vampa che alta dirompe e non si spegne—questo significa il tuo nome. Il fuoco però va governato, come l’acqua, la terra, gli alberi, le bestie».
Le parole del direttore spirituale tornano a invaderle la mente.
«Non canterò più, digiunerò solo all’Avvento» geme contrita.
Ma la voce del sopranista forza i balconi, dall’infanzia torna a battere alla mente: ahi, dolorosa virtù dell’obbedienza!
Si sorprende a cantare. In silenzio. All’interno.



*

Avanza tra i colori dell’affresco, nera sporgenza che li contagia: atona notte tra nota e nota, tra segno e segno.

Apre gli occhi: il canto precipita, si spezza.



*

Resiste l’insonne pulsare . . .
. . . la mente . . .
. . . tra il buio del prima e le fiamme del dopo. . .
. . . affamata, assetata. . .
. . . il volto incolore del niente. . .
. . . prima che luce e buio si separassero. «E io dov’ero?».

Padre Antonio è partito, la madre non risponde. È morta.



*

. . . la ritrova in fondo a un’ansa della mente,
giovane, con un frusciante abito verde e oro
mentre danza in una festa di canti e violini,
di lumi colorati e giochi d’acqua.
Una lumaca nel suo bellissimo volto avanza.
«Attenta!» le grida. La madre non risponde.
Di nuovo è morta. E non lo sa. . .



*

. . . mentre la furia del vento spalanca il balcone,
strappa la tenda che si gonfia nell’aria sparisce a
Occidente: assume forma di traballante veliero
nel mare d’inchiostro di Barberia. . .

. . . per un attimo è, e più non è.



*

«Madre Teresa, aiutami tu» prega
mentre in un imbuto sta precipitando
la notte
espugna il castello, invade le stanze.

Cade un letargo di neve: tutto si raggela.



*

Si sveglia in una stanza d’oscura penombra. Si alza.
A piedi nudi va verso il balcone: giù, nel grande piano alberato, l’animato passeggio, il festoso incrociarsi di carrozze e portantine.
Il crepuscolo lentamente cede a una nebbiosa sera—le parole confuse, i suoni spenti—solo un incomprensibile brusìo nel passo ancheggiante delle dame, nell’impettita andatura dei cavalieri.

«L’ultima volta che ti vedo, mondo» pensa mentre da un’esistenza che non è la sua risale un cigolare di carrozza, si ferma davanti al suo palazzo: un passo deciso e il parlare straniero. Le mani forti del conte a sostenerla.

Il letto è lontanissimo: vacilla.



*

Si trattiene ai mobili, alle tende, passa davanti allo specchio.

«Chi sei?» domanda.

«Lo splendore del niente» risponde la mente già vacillante, dispersa: sabbia tra l’infinita sabbia, polvere tra l’infinita polvere della terra e del cielo.



*

È la prima ora della notte del 30 novembre 1730: faticosamente dopo millenni raggiunge il letto.





Quinto movimento:
l’obbedienza

Ignazia Perremuto fu obbediente: attese il suo direttore spirituale che ritornò in tempo per darle l’estrema unzione e raccogliere le sue ultime parole.

«Addio ricchezze. Addio parenti. Addio amici. Addio tutto: andiamo» disse Ignazia e cadde in coma.

Padre Antonio Macusi volle ancora una volta mettere alla prova l’obbedienza della sua assistita.

Le prese la mano. La chiamò. «Ripeti con me Gesù e Maria» le ordinò.

«Gesù e Maria» dal profondo del coma Ignazia ripeté. E spirò. Era la seconda ora della notte del 1° dicembre 1730.





Epilogo

Se fosse nata a Parigi, e settant’anni dopo, forse Ignazia Perremuto sarebbe stata una di quelle femmes-filosofes che, nei club, nelle assemblee, nei comitati rivoluzionari, sul finire del Settecento, trasformavano in prassi le astratte speculazioni sull’uguaglianza e sulla libertà, decisamente affermando la parità tra i sessi, come la girondina Etta Palm, la giacobina Claire Lacombe o l’appassionata e singolare Olympe de Gouges; nel settembre del 1791 pubblicherà infatti La dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, dedicata alla regina Maria Antonietta, anch’essa in quanto donna considerata oppressa: una dedica che le sarà fatale, insieme a lei finendo i suoi giorni sulla ghigliottina.

Ma nel casuale e sterminato mare delle possibilità esistenziali in cui caso e necessità, genetica e storia capricciosamente s’intersecano, determinando quello che comunemente si definisce “destino”, Ignazia si era invece trovata a vivere in uno spazio-tempo in cui la vita delle donne era ancora esclusivamente scandita tra famiglia e convento, tra chiacchiere e pratiche devote.

Scelse ugualmente la libertà.

Non poté però che viverla all’interno, opponendo al falso pieno di una vita agiata e senza possibilità di scelta, la solitaria e mistica avventura dell’anima: voleva imitare la vita e la santità, le nobili imprese e la divina estasi di Santa Teresa.

Ma, cercando l’estasi, trovò la mente e, in essa dilagante, il niente.



*

«Al dominio di questa vera cognizione del proprio nulla Ignazia pose tutta la sua cura» scrive, più di quarant’anni dopo la sua morte, un devoto e anonimo sacerdote ne La vita della ben’avventurata serva di Dio Ignazia Perremuto, pubblicato a Caltagirone nel 1780.

Senza forzare la segreta intimità di quelle che, con la metafora di Santa Teresa, la stessa Ignazia chiamava «le stanze del suo castello interiore», egli con discrezione ricostruisce i virtuosi e appartati accadimenti della sua esistenza, umilmente fermandosi davanti ai misteriosi abissi di un’anima che in punto di morte lancia uno struggente addio a quei beni mondani in vita sempre rifiutati.

L’anonimo biografo contrappone l’ascetica vita di Ignazia ai corrotti costumi delle donne; in quei libertini anni Ottanta esse, con scollacciate tolette, si lanciavano in ardite danze reclamando per iscritto nel contratto matrimoniale il diritto al cicisbeo: il galante accompagnatore di ogni dama nei balli, nei ricevimenti, nelle languide passeggiate al chiar di luna, mentre il marito faceva a sua volta da cicisbeo a un’altra dama, in un’interminabile catena di lussuriosi scambi.

«O tempora, o mores!» s’indignava il devoto sacerdote indicando a esemplare modello «la maschia virtù» di Ignazia Perremuto: quella maschia virtù che più di una volta aveva messo in crisi il ruolo di guida spirituale di Padre Antonio Macusi, chiamato, poco tempo dopo la morte della sua assistita, a insegnare teologia in una delle case gesuitiche di Palermo.



*

In quella città, dove la transitorietà di ogni bene mondano si manifestava in modo macroscopico e tra l’universale distrazione, Padre Antonio Macusi ebbe modo di riflettere a lungo su essa; le mansioni di maestro della più insigne nobiltà di frequente lo costringevano infatti a partecipare alla frivola e scintillante vita di corte: festini, monacazioni, ricevimenti che, tra calamità, lutti, guerre, cambiamenti dinastici, con le stesse modalità e gli stessi rituali si ripetevano. Assistette perciò con una sorta di vertigine interiore all’acclamazione di Carlo II di Borbone, primo re delle Due Sicilie—per i nuovi equilibri europei l’isola nel 1739 era passata dagli Asburgo d’Austria ai Borbone di Spagna –: un’acclamazione grande ed entusiastica, come grandi ed entusiastiche erano state quelle che dall’inizio del secolo si erano succedute per sovrani di dinastie sempre diverse.

Mentre numerosi a Palermo circolavano—e lo inquietavano—violenti libelli antigesuitici, ripensava sempre più spesso, con un senso di colpa e di impotente nostalgia, a Ignazia, invidiando il suo coraggioso strapparsi di dosso ricchezza, nobiltà e affetti, ma dolorosamente riconoscendo la sua incapacità a privarsene; con gli anni il ricordo di Ignazia diventò quasi un’ossessione a cui, intorno alla metà degli anni Cinquanta, la stesura e la pubblicazione della sua biografia posero fine.

Ma la vera cognizione del nulla—lacerante scheggia nel dentro della sua carne e della sua mente—gli si rivelò in tutta la sua drammatica evidenza quando, ormai vecchissimo e malato, nella sua città natale diede alle stampe una nuova edizione di quella biografia; ma questa volta fu costretto a pubblicarla anonima.

L’incrollabile e potentissima Compagnia di Gesù già da più di dieci anni era bandita come criminale congrega dal Regno delle Due Sicilie e il santo esercito dallo stesso pontefice sciolto e disperso: Padre Macusi era ormai un clandestino senza patria, senza nome, senza pubblica esistenza.




© Sellerio, 2020. This short story comes from the collection Lo splendore del niente e altre storie.