Alta marea
Emmanuela Carbé
1.
Quando vinsi un posto nell’Accademia delle Umanità Antiche e Moderne di Milano25, subito dopo aver concluso il percorso di Acculturato Umanistico Semplice con indirizzo informatico, punti 3.7 su 10 nella scala dell’utilità pubblica stabilita dal Governo a ogni inizio di anno accademico, una studiosa del settore Stra-Antico mi mise sotto la sua protezione e mi spiegò le regole per non perdere il posto:
qui dentro se vuoi campare devi prima di tutto parlare il meno possibile di te, secondo non aspettarti niente da nessuno, terzo non essere ingiustamente maleducata con gli studenti del corso di Fondamenti Acculturato Umanistico Informatizzato. Se qualcuno abbandona, il governo non manda i finanziamenti per i nuovi software e il Consiglio dei Nove Supremi trova il modo di sospenderti. Ricordati che il governo non permette di bocciare uno studente per più di due volte, alla seconda bisogna avvisare i genitori e invitarli a colloquio: se non vuoi sporcare il tuo Tesserino Carriera cerca di non arrivare mai a questo punto.
Se hai malattia cronica o depressione accademica, chiedi l’autogestione delle ferie: così perdi dieci giorni annuali ma puoi allontanarti inoltrando ventiquattro ore prima la domanda precompilata alla Segreteria delle Assenze. Non ti dico nemmeno della gestione nascite, però ricordati di dichiarare > 10 nella stima degli anni in cui assicuri di non rimanere incinta: no, sono anche pochi se vogliamo, tieni conto che ti servono otto anni per l’Accademia, un anno di lavoro gratuito socialmente utile per dimostrare che non sei accademica nel caso in cui, quattro anni di visiting in un istituto diverso dal tuo, due anni di specializzazione di terzo livello per entrare nelle aziende umanistiche per i suggerimenti grammaticali governativi, per quando qui ti faranno fuori.
Non ti nascondo che dopo la Grande Riforma è praticamente impossibile inserirsi. Nella migliore delle ipotesi chiederai di iscriverti al gruppo Femmine Vere e farai un corso serale AFSF, sempre se ci sarà un posto libero. C’è poco da ridacchiare, tra dieci anni ti pentirai di non essere diventata subito una Sposa Felice.
Io mi ero specializzata in Salvataggio della Letteratura Digitale, materia considerata sporca dai puristi DR, e che tuttavia mi faceva sperare di essere presa in prestito, un giorno, dai laboratori degli istituti di Ingegneria sociale, punti 5.1 su 10. La sezione in cui lavoravo si occupava squisitamente di Memoria Umanistica Digitale: la targa MUD in led rossi, ormai da cambiare, accoglieva i visitatori all’ingresso. Ritenevo che il mio lavoro fosse interessante: potevamo entrare negli hard disk di scrittori di fine Novecento e salvare i dati per i Musei del Romanzo Moderno e del Romanzo Postmoderno. Dovevamo prelevare ogni codice binario dalle vecchie carcasse e trasformarlo in Codice Fluido Digitale. A ogni specializzato MUD veniva affidato un autore: se era deceduto si passava subito alla fase di ricerca storiografica; se non era ancora deceduto lo specializzato per prima cosa doveva recarsi nella casa dell’autore, fotografarlo e radiografarlo. Doveva raccogliere dati poi rielaborati per costruire i contenuti extra delle edizioni digitali dei loro romanzi. Il sistema di marcatura dei testi in XML era stato superato dalla ricostruzione grafica tridimensionale: il lettore poteva entrare in una stanza testuale 3D collegata ai database di elementi prelevati da elettroencefalogrammi d’autore, se vivente, o ricostruiti sulla base di rigorose ricerche storiografiche. Tutto naturalmente era condito con contenuti extra: schede di aneddoti, interviste, foto dell’autore nella sua quotidianità, codici sconto per entrare nei Musei del Romanzo moderno e del Romanzo postmoderno. Era questo l’unico modo per ottenere dal governo i fondi necessari per la ricerca.
Alla fine del mio ottavo anno di Accademia, nonostante i punteggi empatia molto alti nelle attività di assistenza studenti e sette review positive del Consiglio dei Nove, il mio Tesserino Carriera aveva una macchia indelebile e mezzo: una cura intensiva di sei giorni e otto ore all’Istituto Depressione Accademica; e ancora prima un’assenza sospetta di ventuno giorni: era legalmente possibile perché non avevo barrato la casella del pacchetto vacanze, tuttavia per la Segreteria delle Assenze avevo inoltrato troppo tardi il modulo precompilato, senza nemmeno inserire sullo spazio bianco, accanto alla casella «motivi di salute», i «specificare i motivi».
Madre si era ammalata al mio sesto anno di Accademia: per una rara anomalia genetica le cellule del suo corpo talvolta passavano le informazioni alle altre cellule, talvolta non le passavano, talvolta non sapevano se passarle, e allora le passavano ovvero no. In quest’ultimo caso le cellule attaccavano altre cellule e distruggevano gli organi, o almeno così io avevo inteso sul portale Sapienza in Abbonamento il giorno in cui madre mi parlò della malattia che si stava mangiando il fegato e poi avrebbe forse attaccato il cuore, i polmoni, i reni, la pelle. Chissà cos’altro mi mangerà, disse ridacchiando.
C’erano tre liste d’attesa, quella degli organi dei pazienti morti, quella degli organi coltivati in laboratorio e quella dei donatori vivi. I pazienti con malattie degenerative potevano aspirare solo alla lista d’attesa peggiore, quella dei morti. La più attrezzata clinica di trapianti della lista uno era la Bologna20. La stima per madre, considerato il quadro clinico, era cinquanta per cento sopravvive, cinquanta per cento no. Talvolta, mentre ci pensavo, osservavo il dorso della mano e poi il palmo, cinquanta sì cinquanta no, e giravo prima su e poi giù, guardavo unghie e polpastrelli.
2.
Salgo sulla Navetta Alta Velocità dalla stazione Milano25, si scansa il controllore per farmi entrare dalla pedana 8. Ore 18.00, si chiudono le porte, scusi (al signore di fronte, cravatta righine, business uomo) ma è la navetta per Roma3? Sì, navetta AV 2230 per zona 3, grazie, pensavo partisse tra dieci minuti, ma no! No no! Lei parla dell’altra navetta, AV 2240, partenza 18.10 con fermate intermedie a Bologna21, Firenze10, Viterbo6 e Roma3. Non era ancora partita, il cervello diceva, ora ti alzi, ora scatti, vai all’entrata e schiacci il bottone, ma subito, subito ora, e se parte mentre arrivo alla porta?, l’altro pensiero. Schiacci il pulsante, blocchi tutto e spieghi il motivo, scendi, c’è il controllore, è lì, la pedana è ancora aperta, ha chiuso le altre, e se ha già chiuso tutto? Schiacci il pulsante rosso, tiri la maniglia, pagherai la multa, segnaleranno la multa sul tuo Tesserino Vita, pagherai tutto, ora alzati e fallo, fallo, signorina (business uomo) ha sbagliato navetta, lei doveva prendere quella delle 18.10, stai zitto, penso, lei dice quella che ci mette due ore e trentacinque perché ha quattro fermate, sì ho sbagliato, grazie, dico, perché vede (business uomo) questa invece arriva in un lampo, un’ora e un quarto, lei avrà sbagliato il tunnel del binario o la sua tavoletta digitale non ha localizzato bene. Lo guardavo, riprovavo mentalmente tutti i passi, alzarmi, prendere valigia, correre, cercare di aprire la porta, è ancora ferma, io ho il Motivo, ho il Motivo per aprire la porta, ora o mai più, scatta, mi alzo, business uomo parla ancora, mi spiega ancora, taci, la ringrazio, guardo verso la porta e il controllore è sul corridoio, io in mezzo, lo guardo, sento muoversi tutto, e con me gli organi interni, i capelli indietro, mi sento spezzare tutta, mi sento accasciare a terra, ma sono in piedi, di pietra, lui si avvicina, sta bene? Ha sbagliato navetta, dice business uomo, doveva prendere quella delle 18.10 per Roma3, non devo andare a Roma3, dico piano, mi guardano, dove doveva andare signora?
*
Funziona così: non sai quando è il tuo turno, sai che a un certo punto ti chiamano e hai poco tempo. Per mesi sai che devono chiamarti, a un certo punto sai che il momento si avvicina.
*
«Non volevo prendere la navetta giusta, vero dottore? È un lapsus, vero?»
«Ha sbagliato navetta, è salita sulla navetta sbagliata». «È un atto mancato?»
«Era molto agitata, ma qui lei deve solo parlare dei problemi legati alla Depressione Accademica».
«È un atto mancato, l’ho letto sul portale Sapienza in Abbonamento».
*
Sai che è il vostro turno, da tanti mesi sapevi che l’avrebbero chiamata, che in poco tempo avresti dovuto infilare qualcosa in valigia, avevi messo in un cassetto dei vestiti per quel giorno, ma sono passate settimane, poi mesi, e ti dimentichi di quella cosa, e nella valigia metti tre calzini spaiati.
Il giorno prima della navetta mancata sapevamo che madre era in posizione alta nella lista. Mi trovavo al bar dell’Istituto, leggevo la prima pagina del Bollettino di Milano25, gravissimo incidente, multitrapianto misto, record del dottor, ospedale Bologna20, sette organi su un unico paziente, due sintetici e cinque da lista uno, mamma pronto, come stai? Così così, hai letto? Sì, manca poco, hanno fatto un multitrapianto misto (non sono che numeri: tot fegati, tot cuori, tot reni, noi volevamo per ora un fegato, serve altro? Sì, ma per ora basta un fegato, grazie e arrivederci). È il nostro turno?
Faceva tutto lei, soffriva lei, faceva lei le flebo, era lei a bombardarsi di medicinali, era lei a non riuscire a trascinarsi verso il bagno, era lei a trascinarci tutti. Io mi ero attaccata a lei con una mano al suo piede destro, padre al piede sinistro, tutti e tre a terra, lei davanti con le mani a strisciare, noi a farci strisciare da lei, dietro, intontiti dall’Ansiolan, e poi dal Dreamolen, e poi dal Benzoten. Era da due anni che tutto era diventato nostro, mio, suo e suo. L’immaginazione del dolore era l’unico modo con cui sapevamo starle vicino. Non so chi lo avesse stabilito: lei stava a casa a curarsi, padre andava a lavorare e la portava in clinica ogni quindici giorni, io stavo a centocinquanta chilometri a osservare la malattia da fuori, a cercare di finire l’Accademia senza sporcare il Tesserino Carriera. Esiste una cosa, in mezzo alla malattia, ed è che tutto il resto, tutto quello che quando sei fuori dalla malattia diresti «se non funziona non è gravissimo», in malattia diventa prioritario, essenziale: se non fai una cosa nella concatenazione prestabilita allora si spezza tutto. Se non finisco l’Accademia madre non avrà il fegato, per ora il fegato ci basta, grazie, ma se non ce la faccio ad andare avanti lei muore sicuro.
*
Il controllore mi toglie dalla zona economy e mi accompagna nella luxury. Mi fa portare un bicchiere e mi offre una maschera di ossigeno per favorire la respirazione. Faccio segno di no e dico che ho bisogno di fermarmi a Bologna21 perché devo essere entro tre ore a Bologna20. Mi risponde l’ovvio, gli dico che se mia madre entra in sala operatoria e non esce viva io non la vedrò mai più, unghie e polpastrelli, lui dice, aspetti qui, e sparisce. Non ho il coraggio di dire a madre che non riuscirò a vederla in tempo. Piango come il più fastidioso dei bambini e mi vergogno di me, mi guardo da fuori, osservo dal finestrino il mio profilo piangere. Padre mi chiama e mi chiede dove sono, io singhiozzo. Madre mi richiama e ridacchia, sei una fessa, mi dice, sei la mia sbadatona, e giù a ridere, sbadatina, devi andare a Roma5 e prendere una Navetta Notturna a Bassa Velocità per Trieste2, ti ci vorranno quattro ore almeno, non addormentarti se no mi finisci chissà dove, io però ti avevo detto di rimanere a lavorare, testona, guarda quante ore di viaggio, ma stai tranquilla, su, non piangere sbadatina—e ridacchia—ti voglio bene.
*
«È un atto mancato, vero?»
«Sa quando ha sentito una certa repulsione per l’ambiente accademico?»
«Io non provo repulsione, io mi trovo benissimo.»
«E perché in casa sua abbiamo trovato una lettera di dimissioni?»
*
Il controllore ritorna da me: ho provato a parlare con la stazione di Bologna21 ma non mi danno la piattaforma, passiamo proprio in mezzo a due piattaforme e non possiamo fermarci nemmeno per farla scendere al volo, mi spiace, ho provato anche con Firenze5 e addirittura Firenze20, se la lasciamo scendere senza piattaforma ci licenziano tutti, mi dispiace. Il controllore aveva chiesto di fermarsi per farmi scendere. Nessuno sconosciuto, in tutta la mia vita, aveva mai fatto così tanto per me. Singhiozzavo per la sua gentilezza e poi tornavo a singhiozzare per madre e poi per il fatto che stavo singhiozzando e non riuscivo a contenermi. Madre mi richiama quando sto per arrivare a Roma3, c’è un problema, sei fortunata—e ridacchia—non sanno se fare il trapianto a me o a un’altra paziente, pensa un po’, hanno chiamato anche lei e ci stanno facendo le analisi per valutare chi è più compatibile, pare che ci vorranno ancora delle ore. Io singhiozzo e mi appoggio al finestrino. Sulla navetta per Trieste2 è pieno di militari che ritornano alle caserme. Cantano e scartano panini al salame, un ragazzo me ne offre uno e io continuo a singhiozzare. Non so quanto sia durato il viaggio, non riesco a ricordarlo, so solo che tutte le lacrime a disposizione per una vita intera si sono esaurite in una notte, il condotto prosciugato, qualsiasi tragedia mi sarebbe capitata poi, qualsiasi tragedia più tragedia di questa, si sarebbe svolta senza teatro. Madre, al mio arrivo in clinica, era ancora in stanza e cercava di far smettere il pianto di padre. Io pensavo non ci fosse più niente nei miei occhi. Vieni qui—e ridacchia—fatti abbracciare.
3.
Avevano deciso che quel fegato era per lei. Quando madre entrò in sala operatoria io e padre scegliemmo due strade diverse: lui, Acculturato Scientifico Avanzato, uscì dalla clinica e andò in chiesa a pregare la Santissima Madonna del Mistero di Bologna5. Io andai nel reparto Palombari, specializzato nel sostegno psicologico e fisico per atei o non credenti abbastanza, e chiesi di entrare in una delle BATI utilizzabili dai parenti più stretti dei malati in codice a (gravi, gravissimi, terminali). Le BATI erano scafandri che venivano immersi in una piscina d’acqua salata. Quelle della Clinica Bologna20 erano tra le più evolute e pesavano solo dieci chili. Erano bianche con bulloni rossi e avevano mani meccaniche per rendere l’esperienza complessa e gratificante. Un tubo collegava BATI alla superficie: da lì venivano immessi ossigeno (ma sul petto dello scafandro c’era una riserva in caso di incidente), liquidi di alimentazione, medicinali per provocare allucinazioni temporanee in grado di distogliere l’attenzione dal dolore. Una cannula aspirante portava in superficie le scorie. Ogni parente era monitorato nelle sue funzioni vitali e la terapia veniva interrotta in caso di anomalie. Una BATI moderna aveva autonomia per quasi due mesi. Si poteva decidere di rimanere in immersione solo per la durata dell’operazione, oppure chiedere preventivamente di stare in acqua anche nei giorni successivi per evitare la terapia intensiva. Io scelsi la strada più naturale e firmai eccome, firmai per rimanere lì sotto per l’intera durata dell’operazione, se necessario anche oltre.
Mi fecero sedere in una sala di attesa. Poi entrare nella sala di decontaminazione: 1. mettere i copriscarpe azzurri usa e getta; 2. raccogliere i capelli; 3. mettersi il camice bianco usa e getta; 4. sfregare bene con il sapone le mani e su su fino ai gomiti (e io sfregavo tantissimo, per paura che qualche batterio si infiltrasse nel nuovo fegato di madre, se fai le cose bene tua madre si salva, mi ripetevo, fai bene le procedure come ti ha spiegato il medico, sbadatona). Alzare le braccia e farsi mettere i guanti dagli infermieri. Entrare nella sala dei suoni e scegliere la playlist per l’immersione. Io per la fretta e l’agitazione scelsi solo Alta marea di Venditti. Mi iniettarono un liquido, mi misero un casco di gomma in testa e un ditale sull’indice, poi mi aiutarono a entrare in BATI. Mentre venivo calata ragionavo che l’operazione di madre sarebbe durata almeno otto ore. Ma come cazzo ho potuto?
*
«Forse mi è venuto in mente perché quando ero piccola mia madre aveva un cofanetto con tutti i più grandi successi di Venditti.».
«Lei può spiegarsi perché non ha mai inviato le dimissioni al Consiglio dei Nove?»
*
Invece le ore furono quindici per un’insufficienza renale, si aggiunsero poi venti giorni di terapia intensiva in cui il personale medico preferì tenermi in BATI perché madre pareva non reagire, era sul punto di non farcela, poi pareva farcela, poi di nuovo no, e io in BATI ad aspettare, senza sapere nulla.
Dentro BATI si sta in uno stato di semicoscienza, come quando ci si addormenta. Chi ha provato BATI riferisce di aver visto mostri marini, castelli incantati, diavoli con la coda, palle luminose da discoteca e persino Dio. Lì sotto c’è di tutto, si diceva. Io mentre scendevo sul fondo non vedevo niente, sentivo solo il cuore più forte di questo motore / sigarette mai spente / sulla radio che va / io che guido inseguendo le luci dell’alba. Ho iniziato a camminare, per terra c’erano sassi, ho cercato di afferrarli ma non mi è riuscito. Ho imparato a usare le mani meccaniche dopo qualche ora: le mani meccaniche e Venditti erano il mio unico passatempo. Spostavo i sassi da una parte e li ammucchiavo dall’altra. Poi è arrivato un branco di pesciolini, ho cercato di afferrarne uno, ma sono scappati. Poi è arrivata un’ombra che pareva mia madre. Aveva un casco di polpo al posto dei capelli. Parlava con una bambina e si raccomandava: quando me ne andrò dovrai essere brava, e se sarai brava farai un sacco di strada, studierai, troverai un lavoro bellissimo e sposerai l’uomo giusto, non uno sbadatone però. Dopo ancora ho perso il senso del tempo e il tempo non esisteva. Esistevano riquadri in cui accadevano cose, i riquadri sparivano e si procedeva per temi. I movimenti erano lenti e non c’era alcuna necessità di presente. Sapevo che dovevo attendere e stare buona ma non sapevo perché, madre continuava a raccomandarsi con bambina, non fare domani quello che puoi fare oggi, tratta il prossimo tuo come vorresti essere trattata, ridi sempre, sii gentile con gli altri, onora il padre. Bambina muoveva la bocca ma i suoni non uscivano. Io annuivo e poi tornavo ad ammucchiare sassi. Poi arrivò una tempesta di sassi, e il mio mucchio scomparve. Un sasso più grande degli altri si avvicinava a BATI, io cercavo di spostarmi ma era come se una corrente marina mi facesse tornare in traiettoria.
Lo so / lo sai / il tempo vola / ma quanta strada / per rivederti ancora. Ho sentito una botta e l’acqua ha iniziato a entrare nelle giunture della BATI, ho tirato il tubo per dare il segnale di portarmi su ma forse su non c’era nessuno. Forse era notte, però l’acqua entrava, o così mi pareva, saliva dentro lo scafandro, era gelida, alla gola—nasce l’aurora—e poi ho perso i sensi. Al mio risveglio non ricordavo niente, nemmeno che mia madre era stata operata. Fui presa a schiaffetti, misi a fuoco—l’immensa paura che tu non sia mia—buongiorno, mi riconosce?, si alzi con calma, quando se la sente la porto in terapia semi-intensiva, sua madre la sta aspettando.
4.
Trapiantare significa traslare, togliere una cosa da un punto e trasportarla in un altro. Nel punto di partenza rimane un buco con pezzi di radici strappate, come quando sradichi una pianta, un girasole. Nel punto di arrivo ogni vecchia radice deve collegarsi al pezzo trapiantato e rigenerarsi insieme. Poi si aspetta di vedere se la pianta sopravvive, se il terreno regge, se la clorofilla smuove. Ci vuole pazienza.
Io non ricordo esattamente il giorno in cui passai al disincanto più totale. Forse non ci fu mai una fase di incanto. Forse io avevo trovato l’habitat naturale nel mio Istituto, dove ora sopravvivevo con otto mesi senza stipendio e otto mesi con. Nessuna sconfitta mi avrebbe mai deluso. Avevo fatto la mia parte, ora bastava andare avanti e fare il mio dovere senza aspirazioni. Non provavo odio se qualcuno non era corretto, non mi sconcertava nessun tipo di regolamento, le idiozie del governo, non mi facevo più nemmeno una domanda. Se arrivavano meno fondi mi pareva normale, c’era la crisi. Partecipavo ai corsi per l’imprenditorialità umanistica e ripulivo il Tesserino Carriera accumulando punti. Facevo come tutti, stavo zitta: lamentarsi era inelegante per chi come me apparteneva alla terribile generazione del lamento. Sapere di essere fortunati, baciati dalla fortuna: sempre. Essere grati. Ogni giorno qualcuno lasciava l’Istituto, e anche se il giorno dopo poteva capitare a me non aveva più alcuna importanza. Nulla aveva importanza. Non provavo rancore per nessuno e sapevo che nessuno aveva colpe, era solo il sistema malato, era la congiuntura economica. Ero contenta di essere giovane e di non avere la responsabilità toccata in sorte al Consiglio dei Nove. Ero grata a tutti per quello che erano riusciti a insegnarmi negli anni del degrado. Ero arrivata allo stadio di Fedeltà Totale e Incondizionata. Quando me ne andrò: me lo chiedevo durante l’Acculturato Umanistico Semplice, poi in Accademia. Con la morte di madre, due mesi dopo il trapianto, avevo smesso di chiedermelo, perché era domanda non influente. Ero diventata adulta, gli scioperanti che urlavano sotto le finestre degli istituti e davanti al palazzo del governo mi facevano solo tenerezza.
Secondo gli psicoanalisti l’elaborazione della perdita di un genitore si compie in diciotto mesi. Io non ricordavo nemmeno l’inizio del mio lutto. Se all’esame gli studenti mi dicevano «ho studiato sulla videolezione di un profe con la barba lunga» e non ricordavano il nome del professore, pure morto, pure illustrissimo studioso di Accultura Umanistica, universalmente noto, rispondevo «ci pensi bene», ma la verità è che li volevo solo abbracciare, perché la loro vita andava avanti anche senza conoscere quel nome, perché stavano bene senza sapere quando fosse nato il Romanzo Moderno e poi il Romanzo Postmoderno, perché non si ponevano alcun problema di salvataggio dei testi letterari per la conservazione della Memoria Umanistica Digitale. Le generazioni più giovani sapevano sempre meno e io facevo parte della catena di decadimento quanto il Consiglio dei Nove, dei Dodici e a scendere. Il portale Sapienza in Abbonamento diventava ogni giorno di più la fonte unica per copiaeincollare nozioni. Eppure non mi importava niente, io non ero nella schiera degli oppositori, degli scandalizzati contrari a quel nuovo mondo che aveva sì gli strumenti della memoria, eppure era senza memoria. Io ero diventata il nuovo mondo. Volevo solo ubriacarmi dei contenuti extra dei romanzi salvati da mud, e volevo un lettore ebook nuovo, più grande, e volevo accumulare soldi per regalare a padre il modello più avanzato di robottini toglipolvere e sciogligrasso. Sapevo che da lì a poco all’Istituto sarebbe stato il mio turno e me ne sarei andata. Non provavo rancori, non era colpa di nessuno. Volevo dimenticare perché ero arrivata fino a lì, come ci ero arrivata, dimenticare madre e i suoi incoraggiamenti, diventare il palombaro più addomesticato e inoffensivo di tutto il mondo. Nel portafogli avevo la tessera socia di Femmine Vere. Mancavano tre mesi all’abilitazione.
Quando vinsi un posto nell’Accademia delle Umanità Antiche e Moderne di Milano25, subito dopo aver concluso il percorso di Acculturato Umanistico Semplice con indirizzo informatico, punti 3.7 su 10 nella scala dell’utilità pubblica stabilita dal Governo a ogni inizio di anno accademico, una studiosa del settore Stra-Antico mi mise sotto la sua protezione e mi spiegò le regole per non perdere il posto:
qui dentro se vuoi campare devi prima di tutto parlare il meno possibile di te, secondo non aspettarti niente da nessuno, terzo non essere ingiustamente maleducata con gli studenti del corso di Fondamenti Acculturato Umanistico Informatizzato. Se qualcuno abbandona, il governo non manda i finanziamenti per i nuovi software e il Consiglio dei Nove Supremi trova il modo di sospenderti. Ricordati che il governo non permette di bocciare uno studente per più di due volte, alla seconda bisogna avvisare i genitori e invitarli a colloquio: se non vuoi sporcare il tuo Tesserino Carriera cerca di non arrivare mai a questo punto.
Se hai malattia cronica o depressione accademica, chiedi l’autogestione delle ferie: così perdi dieci giorni annuali ma puoi allontanarti inoltrando ventiquattro ore prima la domanda precompilata alla Segreteria delle Assenze. Non ti dico nemmeno della gestione nascite, però ricordati di dichiarare > 10 nella stima degli anni in cui assicuri di non rimanere incinta: no, sono anche pochi se vogliamo, tieni conto che ti servono otto anni per l’Accademia, un anno di lavoro gratuito socialmente utile per dimostrare che non sei accademica nel caso in cui, quattro anni di visiting in un istituto diverso dal tuo, due anni di specializzazione di terzo livello per entrare nelle aziende umanistiche per i suggerimenti grammaticali governativi, per quando qui ti faranno fuori.
Non ti nascondo che dopo la Grande Riforma è praticamente impossibile inserirsi. Nella migliore delle ipotesi chiederai di iscriverti al gruppo Femmine Vere e farai un corso serale AFSF, sempre se ci sarà un posto libero. C’è poco da ridacchiare, tra dieci anni ti pentirai di non essere diventata subito una Sposa Felice.
Io mi ero specializzata in Salvataggio della Letteratura Digitale, materia considerata sporca dai puristi DR, e che tuttavia mi faceva sperare di essere presa in prestito, un giorno, dai laboratori degli istituti di Ingegneria sociale, punti 5.1 su 10. La sezione in cui lavoravo si occupava squisitamente di Memoria Umanistica Digitale: la targa MUD in led rossi, ormai da cambiare, accoglieva i visitatori all’ingresso. Ritenevo che il mio lavoro fosse interessante: potevamo entrare negli hard disk di scrittori di fine Novecento e salvare i dati per i Musei del Romanzo Moderno e del Romanzo Postmoderno. Dovevamo prelevare ogni codice binario dalle vecchie carcasse e trasformarlo in Codice Fluido Digitale. A ogni specializzato MUD veniva affidato un autore: se era deceduto si passava subito alla fase di ricerca storiografica; se non era ancora deceduto lo specializzato per prima cosa doveva recarsi nella casa dell’autore, fotografarlo e radiografarlo. Doveva raccogliere dati poi rielaborati per costruire i contenuti extra delle edizioni digitali dei loro romanzi. Il sistema di marcatura dei testi in XML era stato superato dalla ricostruzione grafica tridimensionale: il lettore poteva entrare in una stanza testuale 3D collegata ai database di elementi prelevati da elettroencefalogrammi d’autore, se vivente, o ricostruiti sulla base di rigorose ricerche storiografiche. Tutto naturalmente era condito con contenuti extra: schede di aneddoti, interviste, foto dell’autore nella sua quotidianità, codici sconto per entrare nei Musei del Romanzo moderno e del Romanzo postmoderno. Era questo l’unico modo per ottenere dal governo i fondi necessari per la ricerca.
Alla fine del mio ottavo anno di Accademia, nonostante i punteggi empatia molto alti nelle attività di assistenza studenti e sette review positive del Consiglio dei Nove, il mio Tesserino Carriera aveva una macchia indelebile e mezzo: una cura intensiva di sei giorni e otto ore all’Istituto Depressione Accademica; e ancora prima un’assenza sospetta di ventuno giorni: era legalmente possibile perché non avevo barrato la casella del pacchetto vacanze, tuttavia per la Segreteria delle Assenze avevo inoltrato troppo tardi il modulo precompilato, senza nemmeno inserire sullo spazio bianco, accanto alla casella «motivi di salute», i «specificare i motivi».
Madre si era ammalata al mio sesto anno di Accademia: per una rara anomalia genetica le cellule del suo corpo talvolta passavano le informazioni alle altre cellule, talvolta non le passavano, talvolta non sapevano se passarle, e allora le passavano ovvero no. In quest’ultimo caso le cellule attaccavano altre cellule e distruggevano gli organi, o almeno così io avevo inteso sul portale Sapienza in Abbonamento il giorno in cui madre mi parlò della malattia che si stava mangiando il fegato e poi avrebbe forse attaccato il cuore, i polmoni, i reni, la pelle. Chissà cos’altro mi mangerà, disse ridacchiando.
C’erano tre liste d’attesa, quella degli organi dei pazienti morti, quella degli organi coltivati in laboratorio e quella dei donatori vivi. I pazienti con malattie degenerative potevano aspirare solo alla lista d’attesa peggiore, quella dei morti. La più attrezzata clinica di trapianti della lista uno era la Bologna20. La stima per madre, considerato il quadro clinico, era cinquanta per cento sopravvive, cinquanta per cento no. Talvolta, mentre ci pensavo, osservavo il dorso della mano e poi il palmo, cinquanta sì cinquanta no, e giravo prima su e poi giù, guardavo unghie e polpastrelli.
2.
Salgo sulla Navetta Alta Velocità dalla stazione Milano25, si scansa il controllore per farmi entrare dalla pedana 8. Ore 18.00, si chiudono le porte, scusi (al signore di fronte, cravatta righine, business uomo) ma è la navetta per Roma3? Sì, navetta AV 2230 per zona 3, grazie, pensavo partisse tra dieci minuti, ma no! No no! Lei parla dell’altra navetta, AV 2240, partenza 18.10 con fermate intermedie a Bologna21, Firenze10, Viterbo6 e Roma3. Non era ancora partita, il cervello diceva, ora ti alzi, ora scatti, vai all’entrata e schiacci il bottone, ma subito, subito ora, e se parte mentre arrivo alla porta?, l’altro pensiero. Schiacci il pulsante, blocchi tutto e spieghi il motivo, scendi, c’è il controllore, è lì, la pedana è ancora aperta, ha chiuso le altre, e se ha già chiuso tutto? Schiacci il pulsante rosso, tiri la maniglia, pagherai la multa, segnaleranno la multa sul tuo Tesserino Vita, pagherai tutto, ora alzati e fallo, fallo, signorina (business uomo) ha sbagliato navetta, lei doveva prendere quella delle 18.10, stai zitto, penso, lei dice quella che ci mette due ore e trentacinque perché ha quattro fermate, sì ho sbagliato, grazie, dico, perché vede (business uomo) questa invece arriva in un lampo, un’ora e un quarto, lei avrà sbagliato il tunnel del binario o la sua tavoletta digitale non ha localizzato bene. Lo guardavo, riprovavo mentalmente tutti i passi, alzarmi, prendere valigia, correre, cercare di aprire la porta, è ancora ferma, io ho il Motivo, ho il Motivo per aprire la porta, ora o mai più, scatta, mi alzo, business uomo parla ancora, mi spiega ancora, taci, la ringrazio, guardo verso la porta e il controllore è sul corridoio, io in mezzo, lo guardo, sento muoversi tutto, e con me gli organi interni, i capelli indietro, mi sento spezzare tutta, mi sento accasciare a terra, ma sono in piedi, di pietra, lui si avvicina, sta bene? Ha sbagliato navetta, dice business uomo, doveva prendere quella delle 18.10 per Roma3, non devo andare a Roma3, dico piano, mi guardano, dove doveva andare signora?
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Funziona così: non sai quando è il tuo turno, sai che a un certo punto ti chiamano e hai poco tempo. Per mesi sai che devono chiamarti, a un certo punto sai che il momento si avvicina.
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«Non volevo prendere la navetta giusta, vero dottore? È un lapsus, vero?»
«Ha sbagliato navetta, è salita sulla navetta sbagliata». «È un atto mancato?»
«Era molto agitata, ma qui lei deve solo parlare dei problemi legati alla Depressione Accademica».
«È un atto mancato, l’ho letto sul portale Sapienza in Abbonamento».
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Sai che è il vostro turno, da tanti mesi sapevi che l’avrebbero chiamata, che in poco tempo avresti dovuto infilare qualcosa in valigia, avevi messo in un cassetto dei vestiti per quel giorno, ma sono passate settimane, poi mesi, e ti dimentichi di quella cosa, e nella valigia metti tre calzini spaiati.
Il giorno prima della navetta mancata sapevamo che madre era in posizione alta nella lista. Mi trovavo al bar dell’Istituto, leggevo la prima pagina del Bollettino di Milano25, gravissimo incidente, multitrapianto misto, record del dottor, ospedale Bologna20, sette organi su un unico paziente, due sintetici e cinque da lista uno, mamma pronto, come stai? Così così, hai letto? Sì, manca poco, hanno fatto un multitrapianto misto (non sono che numeri: tot fegati, tot cuori, tot reni, noi volevamo per ora un fegato, serve altro? Sì, ma per ora basta un fegato, grazie e arrivederci). È il nostro turno?
Faceva tutto lei, soffriva lei, faceva lei le flebo, era lei a bombardarsi di medicinali, era lei a non riuscire a trascinarsi verso il bagno, era lei a trascinarci tutti. Io mi ero attaccata a lei con una mano al suo piede destro, padre al piede sinistro, tutti e tre a terra, lei davanti con le mani a strisciare, noi a farci strisciare da lei, dietro, intontiti dall’Ansiolan, e poi dal Dreamolen, e poi dal Benzoten. Era da due anni che tutto era diventato nostro, mio, suo e suo. L’immaginazione del dolore era l’unico modo con cui sapevamo starle vicino. Non so chi lo avesse stabilito: lei stava a casa a curarsi, padre andava a lavorare e la portava in clinica ogni quindici giorni, io stavo a centocinquanta chilometri a osservare la malattia da fuori, a cercare di finire l’Accademia senza sporcare il Tesserino Carriera. Esiste una cosa, in mezzo alla malattia, ed è che tutto il resto, tutto quello che quando sei fuori dalla malattia diresti «se non funziona non è gravissimo», in malattia diventa prioritario, essenziale: se non fai una cosa nella concatenazione prestabilita allora si spezza tutto. Se non finisco l’Accademia madre non avrà il fegato, per ora il fegato ci basta, grazie, ma se non ce la faccio ad andare avanti lei muore sicuro.
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Il controllore mi toglie dalla zona economy e mi accompagna nella luxury. Mi fa portare un bicchiere e mi offre una maschera di ossigeno per favorire la respirazione. Faccio segno di no e dico che ho bisogno di fermarmi a Bologna21 perché devo essere entro tre ore a Bologna20. Mi risponde l’ovvio, gli dico che se mia madre entra in sala operatoria e non esce viva io non la vedrò mai più, unghie e polpastrelli, lui dice, aspetti qui, e sparisce. Non ho il coraggio di dire a madre che non riuscirò a vederla in tempo. Piango come il più fastidioso dei bambini e mi vergogno di me, mi guardo da fuori, osservo dal finestrino il mio profilo piangere. Padre mi chiama e mi chiede dove sono, io singhiozzo. Madre mi richiama e ridacchia, sei una fessa, mi dice, sei la mia sbadatona, e giù a ridere, sbadatina, devi andare a Roma5 e prendere una Navetta Notturna a Bassa Velocità per Trieste2, ti ci vorranno quattro ore almeno, non addormentarti se no mi finisci chissà dove, io però ti avevo detto di rimanere a lavorare, testona, guarda quante ore di viaggio, ma stai tranquilla, su, non piangere sbadatina—e ridacchia—ti voglio bene.
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«È un atto mancato, vero?»
«Sa quando ha sentito una certa repulsione per l’ambiente accademico?»
«Io non provo repulsione, io mi trovo benissimo.»
«E perché in casa sua abbiamo trovato una lettera di dimissioni?»
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Il controllore ritorna da me: ho provato a parlare con la stazione di Bologna21 ma non mi danno la piattaforma, passiamo proprio in mezzo a due piattaforme e non possiamo fermarci nemmeno per farla scendere al volo, mi spiace, ho provato anche con Firenze5 e addirittura Firenze20, se la lasciamo scendere senza piattaforma ci licenziano tutti, mi dispiace. Il controllore aveva chiesto di fermarsi per farmi scendere. Nessuno sconosciuto, in tutta la mia vita, aveva mai fatto così tanto per me. Singhiozzavo per la sua gentilezza e poi tornavo a singhiozzare per madre e poi per il fatto che stavo singhiozzando e non riuscivo a contenermi. Madre mi richiama quando sto per arrivare a Roma3, c’è un problema, sei fortunata—e ridacchia—non sanno se fare il trapianto a me o a un’altra paziente, pensa un po’, hanno chiamato anche lei e ci stanno facendo le analisi per valutare chi è più compatibile, pare che ci vorranno ancora delle ore. Io singhiozzo e mi appoggio al finestrino. Sulla navetta per Trieste2 è pieno di militari che ritornano alle caserme. Cantano e scartano panini al salame, un ragazzo me ne offre uno e io continuo a singhiozzare. Non so quanto sia durato il viaggio, non riesco a ricordarlo, so solo che tutte le lacrime a disposizione per una vita intera si sono esaurite in una notte, il condotto prosciugato, qualsiasi tragedia mi sarebbe capitata poi, qualsiasi tragedia più tragedia di questa, si sarebbe svolta senza teatro. Madre, al mio arrivo in clinica, era ancora in stanza e cercava di far smettere il pianto di padre. Io pensavo non ci fosse più niente nei miei occhi. Vieni qui—e ridacchia—fatti abbracciare.
3.
Avevano deciso che quel fegato era per lei. Quando madre entrò in sala operatoria io e padre scegliemmo due strade diverse: lui, Acculturato Scientifico Avanzato, uscì dalla clinica e andò in chiesa a pregare la Santissima Madonna del Mistero di Bologna5. Io andai nel reparto Palombari, specializzato nel sostegno psicologico e fisico per atei o non credenti abbastanza, e chiesi di entrare in una delle BATI utilizzabili dai parenti più stretti dei malati in codice a (gravi, gravissimi, terminali). Le BATI erano scafandri che venivano immersi in una piscina d’acqua salata. Quelle della Clinica Bologna20 erano tra le più evolute e pesavano solo dieci chili. Erano bianche con bulloni rossi e avevano mani meccaniche per rendere l’esperienza complessa e gratificante. Un tubo collegava BATI alla superficie: da lì venivano immessi ossigeno (ma sul petto dello scafandro c’era una riserva in caso di incidente), liquidi di alimentazione, medicinali per provocare allucinazioni temporanee in grado di distogliere l’attenzione dal dolore. Una cannula aspirante portava in superficie le scorie. Ogni parente era monitorato nelle sue funzioni vitali e la terapia veniva interrotta in caso di anomalie. Una BATI moderna aveva autonomia per quasi due mesi. Si poteva decidere di rimanere in immersione solo per la durata dell’operazione, oppure chiedere preventivamente di stare in acqua anche nei giorni successivi per evitare la terapia intensiva. Io scelsi la strada più naturale e firmai eccome, firmai per rimanere lì sotto per l’intera durata dell’operazione, se necessario anche oltre.
Mi fecero sedere in una sala di attesa. Poi entrare nella sala di decontaminazione: 1. mettere i copriscarpe azzurri usa e getta; 2. raccogliere i capelli; 3. mettersi il camice bianco usa e getta; 4. sfregare bene con il sapone le mani e su su fino ai gomiti (e io sfregavo tantissimo, per paura che qualche batterio si infiltrasse nel nuovo fegato di madre, se fai le cose bene tua madre si salva, mi ripetevo, fai bene le procedure come ti ha spiegato il medico, sbadatona). Alzare le braccia e farsi mettere i guanti dagli infermieri. Entrare nella sala dei suoni e scegliere la playlist per l’immersione. Io per la fretta e l’agitazione scelsi solo Alta marea di Venditti. Mi iniettarono un liquido, mi misero un casco di gomma in testa e un ditale sull’indice, poi mi aiutarono a entrare in BATI. Mentre venivo calata ragionavo che l’operazione di madre sarebbe durata almeno otto ore. Ma come cazzo ho potuto?
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«Forse mi è venuto in mente perché quando ero piccola mia madre aveva un cofanetto con tutti i più grandi successi di Venditti.».
«Lei può spiegarsi perché non ha mai inviato le dimissioni al Consiglio dei Nove?»
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Invece le ore furono quindici per un’insufficienza renale, si aggiunsero poi venti giorni di terapia intensiva in cui il personale medico preferì tenermi in BATI perché madre pareva non reagire, era sul punto di non farcela, poi pareva farcela, poi di nuovo no, e io in BATI ad aspettare, senza sapere nulla.
Dentro BATI si sta in uno stato di semicoscienza, come quando ci si addormenta. Chi ha provato BATI riferisce di aver visto mostri marini, castelli incantati, diavoli con la coda, palle luminose da discoteca e persino Dio. Lì sotto c’è di tutto, si diceva. Io mentre scendevo sul fondo non vedevo niente, sentivo solo il cuore più forte di questo motore / sigarette mai spente / sulla radio che va / io che guido inseguendo le luci dell’alba. Ho iniziato a camminare, per terra c’erano sassi, ho cercato di afferrarli ma non mi è riuscito. Ho imparato a usare le mani meccaniche dopo qualche ora: le mani meccaniche e Venditti erano il mio unico passatempo. Spostavo i sassi da una parte e li ammucchiavo dall’altra. Poi è arrivato un branco di pesciolini, ho cercato di afferrarne uno, ma sono scappati. Poi è arrivata un’ombra che pareva mia madre. Aveva un casco di polpo al posto dei capelli. Parlava con una bambina e si raccomandava: quando me ne andrò dovrai essere brava, e se sarai brava farai un sacco di strada, studierai, troverai un lavoro bellissimo e sposerai l’uomo giusto, non uno sbadatone però. Dopo ancora ho perso il senso del tempo e il tempo non esisteva. Esistevano riquadri in cui accadevano cose, i riquadri sparivano e si procedeva per temi. I movimenti erano lenti e non c’era alcuna necessità di presente. Sapevo che dovevo attendere e stare buona ma non sapevo perché, madre continuava a raccomandarsi con bambina, non fare domani quello che puoi fare oggi, tratta il prossimo tuo come vorresti essere trattata, ridi sempre, sii gentile con gli altri, onora il padre. Bambina muoveva la bocca ma i suoni non uscivano. Io annuivo e poi tornavo ad ammucchiare sassi. Poi arrivò una tempesta di sassi, e il mio mucchio scomparve. Un sasso più grande degli altri si avvicinava a BATI, io cercavo di spostarmi ma era come se una corrente marina mi facesse tornare in traiettoria.
Lo so / lo sai / il tempo vola / ma quanta strada / per rivederti ancora. Ho sentito una botta e l’acqua ha iniziato a entrare nelle giunture della BATI, ho tirato il tubo per dare il segnale di portarmi su ma forse su non c’era nessuno. Forse era notte, però l’acqua entrava, o così mi pareva, saliva dentro lo scafandro, era gelida, alla gola—nasce l’aurora—e poi ho perso i sensi. Al mio risveglio non ricordavo niente, nemmeno che mia madre era stata operata. Fui presa a schiaffetti, misi a fuoco—l’immensa paura che tu non sia mia—buongiorno, mi riconosce?, si alzi con calma, quando se la sente la porto in terapia semi-intensiva, sua madre la sta aspettando.
4.
Trapiantare significa traslare, togliere una cosa da un punto e trasportarla in un altro. Nel punto di partenza rimane un buco con pezzi di radici strappate, come quando sradichi una pianta, un girasole. Nel punto di arrivo ogni vecchia radice deve collegarsi al pezzo trapiantato e rigenerarsi insieme. Poi si aspetta di vedere se la pianta sopravvive, se il terreno regge, se la clorofilla smuove. Ci vuole pazienza.
Io non ricordo esattamente il giorno in cui passai al disincanto più totale. Forse non ci fu mai una fase di incanto. Forse io avevo trovato l’habitat naturale nel mio Istituto, dove ora sopravvivevo con otto mesi senza stipendio e otto mesi con. Nessuna sconfitta mi avrebbe mai deluso. Avevo fatto la mia parte, ora bastava andare avanti e fare il mio dovere senza aspirazioni. Non provavo odio se qualcuno non era corretto, non mi sconcertava nessun tipo di regolamento, le idiozie del governo, non mi facevo più nemmeno una domanda. Se arrivavano meno fondi mi pareva normale, c’era la crisi. Partecipavo ai corsi per l’imprenditorialità umanistica e ripulivo il Tesserino Carriera accumulando punti. Facevo come tutti, stavo zitta: lamentarsi era inelegante per chi come me apparteneva alla terribile generazione del lamento. Sapere di essere fortunati, baciati dalla fortuna: sempre. Essere grati. Ogni giorno qualcuno lasciava l’Istituto, e anche se il giorno dopo poteva capitare a me non aveva più alcuna importanza. Nulla aveva importanza. Non provavo rancore per nessuno e sapevo che nessuno aveva colpe, era solo il sistema malato, era la congiuntura economica. Ero contenta di essere giovane e di non avere la responsabilità toccata in sorte al Consiglio dei Nove. Ero grata a tutti per quello che erano riusciti a insegnarmi negli anni del degrado. Ero arrivata allo stadio di Fedeltà Totale e Incondizionata. Quando me ne andrò: me lo chiedevo durante l’Acculturato Umanistico Semplice, poi in Accademia. Con la morte di madre, due mesi dopo il trapianto, avevo smesso di chiedermelo, perché era domanda non influente. Ero diventata adulta, gli scioperanti che urlavano sotto le finestre degli istituti e davanti al palazzo del governo mi facevano solo tenerezza.
Secondo gli psicoanalisti l’elaborazione della perdita di un genitore si compie in diciotto mesi. Io non ricordavo nemmeno l’inizio del mio lutto. Se all’esame gli studenti mi dicevano «ho studiato sulla videolezione di un profe con la barba lunga» e non ricordavano il nome del professore, pure morto, pure illustrissimo studioso di Accultura Umanistica, universalmente noto, rispondevo «ci pensi bene», ma la verità è che li volevo solo abbracciare, perché la loro vita andava avanti anche senza conoscere quel nome, perché stavano bene senza sapere quando fosse nato il Romanzo Moderno e poi il Romanzo Postmoderno, perché non si ponevano alcun problema di salvataggio dei testi letterari per la conservazione della Memoria Umanistica Digitale. Le generazioni più giovani sapevano sempre meno e io facevo parte della catena di decadimento quanto il Consiglio dei Nove, dei Dodici e a scendere. Il portale Sapienza in Abbonamento diventava ogni giorno di più la fonte unica per copiaeincollare nozioni. Eppure non mi importava niente, io non ero nella schiera degli oppositori, degli scandalizzati contrari a quel nuovo mondo che aveva sì gli strumenti della memoria, eppure era senza memoria. Io ero diventata il nuovo mondo. Volevo solo ubriacarmi dei contenuti extra dei romanzi salvati da mud, e volevo un lettore ebook nuovo, più grande, e volevo accumulare soldi per regalare a padre il modello più avanzato di robottini toglipolvere e sciogligrasso. Sapevo che da lì a poco all’Istituto sarebbe stato il mio turno e me ne sarei andata. Non provavo rancori, non era colpa di nessuno. Volevo dimenticare perché ero arrivata fino a lì, come ci ero arrivata, dimenticare madre e i suoi incoraggiamenti, diventare il palombaro più addomesticato e inoffensivo di tutto il mondo. Nel portafogli avevo la tessera socia di Femmine Vere. Mancavano tre mesi all’abilitazione.