Cartone animato

Michela Murgia

Artwork by Joon Youn

1
 
Dicono che i capelli di Francesco Cossiga siano diventati tutti bianchi in una sola notte, quella in cui il governo decise di non negoziare con le brigate rosse per la vita di Aldo Moro. Era l’unico caso di invecchiamento istantaneo di cui fossi a conoscenza prima di stamattina, quando allo specchio ho visto che la pelle sotto ai miei occhi, tonica sino a ieri, di colpo somigliava a una maglina slabbrata. Mi sono sentita tradita, ma non saprei dire da chi. Eppure so perché mi sta succedendo. Questo tipo di crolli è dovuto alle preoccupazioni, non all’età, anche perché contro il tempo io ho fatto sempre il mio dovere. Mai andata a dormire senza togliere il trucco, per dire. Avrò mancato qualche volta all’inizio, non lo nego, ma negli anni Ottanta non esistevano ancora gli struccanti bifasici che levano il rimmel in due passate. Mia madre, che si metteva l’Oil of Olaz come una sentinella fa la ronda, quando al mattino scendevo a colazione con le strisciate sotto gli occhi mi diceva che non mi curavo. Quel verbo mi irritava, ma non avevo ancora capito che invecchiare fosse una faccenda di malattia. A vent’anni ho letto un’intervista in cui Madonna confessava che neppure in tour mancava di struccarsi prima di dormire e mi sono sentita addosso l’accusa di omissione di soccorso. Credo di aver smesso allora di avere fede nell’immortalità del mio collagene. Se Louise Veronica riusciva a levarsi il mascara anche si esausta da un concerto, chi ero io per disertare. Negli anni seguenti ho fatto altri errori, ma di sicuro nessuno che giustifichi il crollo di stamattina. Per scendere a prendere la posta mi sono messa la mascherina chirurgica, così almeno la faccia sta un po’ nascosta. Avrei evitato anche di far quello, ma è arrivato il pacco che aspettavo e non potevo tardare un minuto di più per averlo.

Come avevo chiesto, il corriere lo ha lasciato all’enoteca di sotto e mi sono disfatta subito del cartone, così quando rientrano non si accorgeranno di niente. Ho già deciso dove nasconderlo fino a domani. Smontato, sta sul sfondo dell’armadio grande della camera da letto. Detesto l’idea di metterlo lì dentro al buio con la faccia voltata contro il legno, ma nessuno in casa capirebbe, se lo lasciassi in vista. Vedo già la scena. “Questo è Park Jimin, da oggi sta in soggiorno con noi, è un problema?” Con mio marito in realtà me la caverei facilmente. Mi sfotterebbe, è certo, ma conosco i suoi punti deboli, non sono tanto più dignitosi. È lo sguardo di mio figlio quello che non credo di poter sopportare. Non ho idea di quando abbia cominciato a guardarmi in quel modo giudicante, immagino sia stato nei primi anni di liceo, nel momento in cui gli adolescenti scelgono il genitore a cui non vogliano somigliare. Per lui è stato facile: aveva solo me. Vorrei dirgli che desiderare le cose non le rende automaticamente vere, che mi assomiglia più di quanto immagini, ma è passato il tempo in cui ascoltava i miei consigli. Adesso non chiede più niente e mi mette davanti al fatto compiuto, come questa storia di andare a stare da solo per l’università, stessa città e case diverse, giusto perché mi sia chiaro che il motivo del trasloco non è la distanza. Si trasferisce la settimana prossima, ma non sono sorpresa. Erano anni che mi preparavo al giorno in cui si sarebbe sentito grande al punto da provare a propinarmi la retorica dell’indipendenza. È andata però come a Cossiga e al mio contorno occhi: è venuto tutto giù di colpo e ai colpi non si è mai pronti abbastanza. Scegliere è sempre invecchiare, ma è solo a diciannove anni che il mondo ti accorda ancora l’indulgenza di chiamarla crescita.


 
2

Mentre mio figlio e mio marito ancora dormono io preparo i pancake. Ho preso questa abitudine qualche mese fa, dopo una vacanza negli Stati Uniti in cui noi tre abbiamo fatto colazione tutte la mattine così, caffè lungo e sciroppo d’acero in un locale sorprendentemente buono vicino alla Grande Central Station, dove mio figlio, col suo inglese romano, pretendeva che dicendo cock i camerieri attoniti gli portassero una coca. In quelle colazioni lunghissime ogni boccone era celebrato come se non avessimo mai mangiato zuccheri. Chi vende cibo di conforto nei posti di scambio sa che la gente che parte ha bisogno di un ultimo buon sapere a cui desiderare di tornare e in quel bar ogni frittella era progettata per aggrapparsi come un rampino alla memoria lunga dello stomaco. Mio marito aveva preparato una tabella di marcia che includeva gallerie, panorami e monumenti che secondo le guide avremmo dovuto assolutamente vedere, ma non gli avevamo dato retta. Eravamo a New York per la prima volta e mi sembrava più bello camminare tra gli isolati di Manhattan senza pianificare. Non sapere dove andare è una buona premessa per arrivare dappertutto. Quei giorni americani li ricordo come un felice ritorno al passato, quando la fatica del convivere non la misuravamo ancora in sguardi furtivi allo smartphone. Al rientro mi è piaciuto illudermi che riproporre il menu ipercalorico di quel bar potesse rievocare l’atmosfera scanzonata d’oltreoceano, ma il concetto di vacanza esiste proprio perché quella magia non appartiene al quotidiano. I pancake li mangiamo ancora volentieri, ma ogni volta che la porta si chiude alle loro spalle e rimango a casa ad aspettare che tornino, non ch’è dubbio su chi nella nostra famiglia sia il treno e chi la stazione.
           
Quel giro di chiave oggi non mi darà alcuna malinconia.
           
È dall’alba che aspetto la solitudine per organizzarmi con Jimin. Lo tirerò fuori dall’armadio, lo monterò e lo metterò al centro del soggiorno per guardarlo con comodo dal divano. Sarà splendido nella luce del mattino. Quest’uomo toglie il fiato anche in due dimensioni, raggiante e levigato come una porcellana di Joseon. Il problema di invecchiare sono lo sfiora, dimostrerà sedici anni anche a quaranta. Online dicono che quella giovinezza infinita è merito dell’alimentazione a base di riso, ma basterebbe un giro nel Vercellese per constatare che di internet non sempre ci si può fidare. Per non cedere all’illusione e ingozzarmi di ciotole di basmati, mi ripeto tre volte al giorno che gli orientali hanno un vantaggio genetico che sarà sempre oltre la nostra portata. Jimin è la selezione d’eccellenza di quel patrimonio, eppure nemmeno per lui è facile starci dentro. È alto un metro e settantaquattro, parecchio al di sopra della sua media nazionale, ma questo non gli impedisce di sentirsi basso, mai all’altezza dei compagni del gruppo. È il conteso che fai il disagio. A me, che sono un metro a sessante scarso, quel cartonato a grandezza naturale sembra il totem di un altissimo bambino. Mi farò qualche selfie con lui appena lo monto, ma non li posterò nei forum del fandom. Ho visto cosa succede alle donne della mia età che provano a condividere la loro passione con le ragazzine. Sono feroci e scrivono di tutto per farti sentire fuori luogo. Ti mettono addosso etichette come cringe, che significa molto più che ‘imbarazzante’: ti dice con disprezzo che ci sono cose che non puoi più fare né essere. Cringe vuol dire che le sedicenni trovano grottesco che le loro madri vogliano ancora vivere. Mio figlio non mia ha mai detto quella parola, ma ho buone ragioni per credere che l’abbia pensata molte volte. Jimin non lo direbbe mai, è troppo gentile o forse semplicemente troppo coreano. Laggiù il rispetto per gli anziani è una parte fondamentale dell’educazione, di quella buona e anche di quella cattiva.
           
La foto che hanno usato per il cartone non è uno dei suoi migliori scatti, ma non c’era molta scelta. Risale alla fase in cui portava i capelli ossigenati fin quasi al bianco, colore molto chic che però dona solo alle pelli freschissima come la sua, e indossa un bomber argentato su pantaloni neri attillati. È molto magro, sessanta chili a dir troppo. Nelle interviste si lascia sfuggire spesso di aver fame e di mangiare di nascosto dall’agenzia appena può, salvo poi temere di ritrovarsi col culone, qualunque cosa voglia dire avere il culone in una parte di mondo che considera la taglia 42 una large. L’inquadratura è presa un po’ dall’alto, e non gli fa giustizia, ha poco make-up e sembra pallido, ma è la scarsa qualità di stampa che lo slava. È colpa mia. Per la fretta ho ordinato un surrogato su un sito di stampe che fa un po’ di tutto, anche i cartonati di Al Bano. Sospetto non gli paghino manco i diritti d’immagine, ma garantivano la consegna più veloce e io ne avevo bisogno subito. Con meno di 50 euro non è che mi potessi aspettare l’alta fedeltà. E del resto, quale cartonato potrebbe riprodurre l’aura che splende intorno a questo ragazzo? Che balli o canti, che rida o dorma, Jimin è un miscuglio perfetto di leggerezza e potenza, energico ed elegante, seducente e infantile. Odio quando qualcuno lo definisce sessualmente ambiguo, nei modi codardi di che ha la gente per non dire frocio. Basta che uno mescoli appena gli atteggiamenti e parte subito l’etichetta. È xenofobia culturale, ma cercano di fartela passare per complimento. Sui social è pieno di video di uomini che reagiscono alle sue performance, con titoli come ‘Ecco Jimin che mette in questione la sessualità dei maschi’, modi in apparenza divertenti per dare la colpa a lui del fatto che non sai dire da solo che ti piacciono gli uomini. The Jimin effect, lo chiamano. Once you Jimin, you’ll never Jimout. Spero che lui, dietro il filtro iperprotettivo dell’agenzia, non abbia mai visto questa roba, la sola idea che possa farsene intristire mi dà fastidio.


 
3
 
Ieri siamo stati insieme tutto il pomeriggio, abbiamo guardato la tv e poco prima che mio marito e mio figlio tornassero ho preparato un panino con la mortadella e l’ho mangiato sul divano. Credevo che la sera avrei dormito come un sasso, invece non ho chiuso occhio. Sapere che Jimin è dietro quell’anta è una sensazione elettrizzante e un po’ colpevole, come in quei film dove la moglie nasconde un tizio nell’armadio e poi al marito dice: caro, posso spiegare, non è come sembra. Se aprissero per sbaglio l’armadio lo vedrebbero, ma in questi anni nessuno dei due lo ha mai fatto. Come i bambini nella pancia, se non sarò io a tirarlo fuori da lì, Jimin potrebbe restarci in eterno, al sicuro, anche se nemmeno dei figli in utero ci si può fidare mai del tutto. Io ho avuto una gravidanza di sette mesi, per dire che anche allora mio figlio aveva il trasloco facile. Jimin non mi farà niente di simile. È arrivato per restare. Certo, preferirei stesse dove lo posso vedere, ma gli armadi alla fine non sono brutti posti, che passi lì la notte è un buon compromesso. Non è da un armadio che si entrava a Narnia? Scenari verdissimi, casette illuminate sotto la coltre di neve, un mondo magico pieno di sorprese. Stasera proverò a dormire concentrandomi su questo pensiero. Immaginerò che il fondo dell’armadio si assottigli e diventi trasparente e poi attraversabile, facendo vedere a Jimin i panorami di un paradiso parallelo, verde e pieno di belle sorprese, senza streghe né fauni traditori. Spero che quell’universo fantastico lo ripaghi un po’ del fatto che oggi non ho potuto tirarlo fuori dall’armadio, perché mio figlio ha deciso che avrebbe studiato a casa. Non me lo aspettavo. A metà mattina, dopo il suo solito risveglio lentissimo, si è messo in soggiorno con le cuffie nelle orecchie e il computer davanti, immerso in un mondo dove io sono interdetta. Non studia spesso a casa, perché il mio andirivieni, così lo chiama, non gli permetta di concentrarsi. All’inizio, prima che preferisse andare a preparare le interrogazioni altrove, non nego di essere stata piuttosto presente, ma piccole cose, niente di davvero invadente. Gli chiedevo se gli serviva qualcosa e se non mi rispondeva gli preparavo comunque un piattino sfizioso, due biscotti secchi, qualche fetta di prosciutto, una coppetta di fragole e zucchero, lasciandoglielo sul tavolo nel tentativo di disturbarlo il meno possibile. A chi non piace uno spuntino? Li consumava, consuma sempre tutto, ma mi è sempre stato chiaro che non bastassero quelle attenzioni a scusarmi per aver violato il suo spazio. Oggi però il disagio l’ho provato io. Quando ho capito che non sarebbe uscito di casa sono tornata in camera e ho chiuso la porta. Ho pensato di tirare fuori Jimin e metterlo in piedi nella stanza, stare un po’insieme a lui, ascoltare della musica, ma il pensiero che mio figlio stesse di là, capace di entrare di colpo per qualunque motivo, mi ha fermata. Scrupolo inutile: non è mai entrato.


 
4

Neppure stanotte ho dormito. L’idea che dall’armadio si passasse a Narnia non mi è stata di nessun conforto. Era troppo difficile immaginare freschi sottoboschi pieni di lucciole mentre qui fa un caldo soffocante. L’idea di Jimin chiuso tutta la notte tra quattro assi di legno mi faceva mancare il respiro a dispetto delle finestre socchiuse. Quando mio marito ha preso sonno mi sono alzata e ho dato allo sportello dell’armadio uno spiraglio di qualche centimetro, appena il necessario per farci filtrare un po’ d’aria. Non molto, certo, ma qualcosa, giusto il necessario per farlo respirare e dispormi a dormire anche io. Poi però mio marito alle tre si è alzato per andare in bagno e nella penombra ha sbattuto contro l’anta che sporgeva. L’ho sentito bestemmiare e quando ho acceso la luce mi fissava ostile, in mutande davanti all’armadio spalancato. “Che cazzo me lo lasci aperto?” Volevo giustificarmi, ma riuscivo solo a pensare che gli sarebbe bastato spostare lo sguardo di quarantacinque gradi per vedere Jimin sul fondo dell’armadio. Però non lo ha fatto. Mi ha guardata con risentimento per qualche secondo, poi l’urgenza idraulica ha avuto la meglio e gli ha fatto riprendere la via per il cesso. Appena è andato via sono corsa a chiudere l’anta, eppure ero certa di averla lasciata appena accostata prima di dormire. Poteva essersi spalancata al punto da costituire un inciampo? Impossibile, a meno che non abbia le cerniere allentate, però stamattina con la luce le ho controllate con attenzione e si chiudono regolarmente con il loro piccolo scatto calamitato. Devo solo stare attenta a farglielo fare.
           
Oggi la casa è stata mia tutto il giorno e Jimin è rimasto con me finché ha potuto. Dopo le pulizie abbiamo guardato diverse ore di performance del gruppo su YouTube, soprattutto quelle con le fancam focalizzate su di lui. Ne esistono centinaia, queste ragazzine del fandom filmano tutto, ma non finisce mai di stupirmi della sua dualità: tanto è spudorato sul palco, tanto è timido una volta che ne discende. Quando ci siamo stancati di guardare la tv l’ho portato in cucina e mentre preparavo la cena abbiamo parlato un po’ della questione dello scioglimento del gruppo. So che non gli piace che lo chiami “scioglimento”, loro preferiscono definirlo “pausa per lo sviluppo dei progetti personali”, ma non sono una ragazzina di diciassette anni che ha bisogno di essere blandita con mezze verità, io lo so che cosa vuol dire quella formula pietosa. Per questo sono preoccupata per lui. È un vocalist delicato e con un timbro caratteristico, ma a differenza degli altri del gruppo non ha mai avuto il carisma del solista. Balla meglio della maggior parte di loro e ha una grazia ineguagliabile – la leggenda del pattinaggio artistico giapponese Yuzuru Hanyu ha confessato di ispirarsi a lui nelle sue coreografie -, ma non esistono ballerini solisti nel pop. Cosa farà se si sciolgono? Non ha saputo darmi una risposta, ma avremo tanto tempo per approfondire il discorso. Stanotte si annunciano altre temperature straordinarie. Aprirò l’anta di nuovo, ma appena appena. È un rischio, se mio marito si sveglia di nuove potrebbe incuriosirsi, ma non posso sopportare il pensiero di Jimin solo lì dentro completamente al buio.
 


5

Ho passato un’altra notte quasi in bianco. Dopo quattro giorni di insonnia non ho il coraggio di guardarmi allo specchio, immagino che la situazione del mio contorno occhi non abbia più niente di recuperabile. “Ma se sembri una ragazzina” ha detto mio marito con quel tipo di menzogne a fin di bene che finiscono per renderlo poco credibile anche quando dice la verità. Per senso del dovere ho comprato la melatonina, ma non l’ho presa. È una trappola. Mi illuderebbe di un primo sonno che poi non dura e mi ritroverei alle tre con gli occhi inchiodati al soffitto mentre il naso di mio marito ronza come la ventola di un condizionatore. La casa è rovente, ma nell’armadio la temperatura dev’essere insopportabile. Credo sia per questo che nel poco che ho dormito ho avuto un incubo orribile. C’era Jimin là dentro, ma non era solo, stava rannicchiato insieme a qualcosa di vivo, scuro e sbagliato che lo minacciava. Nel sogno sentivo che era lì con lui e respirava, terrorizzandolo. Non so come sia entrata nell’armadio quella creatura, ma la risposta è talmente logica che avrei dovuto pensarci prima: anche noi siamo la Narnia di qualcun altro. Mi sono svegliata alle due e sono andata subito all’armadio per cacciare la creatura, qualunque cosa fosse, ma quando ho aperto l’anta c’era solo Jimin, silenzioso e quieto. Ho chiuso l’armadio premurandomi che facesse lo scatto, poi ho sentito dei rumori e sono uscita dalla stanza. C’era mio figlio in corridoio e mi ha guardata assonnato, ma severo.
           
“Cosa stai facendo?”
           
“Niente.”
           
“Perché sei sveglia a quest’ora?”
           
“Potrei chiederti lo stesso.”
           
“Mi sono alzato a pisciare.”
           
“Io non riesco a dormire bene.”
           
“Non hai preso la melatonina?”
           
“Preferisco di no, poi mi abituo.”
           
“Se non riesci però prendila, hai una faccia da paura.”
           
(Lui sì che mi dice la verità.)
           
“Queste sono frasi di madre.”
           
“Un figlio non può preoccuparsi?”
           
Mi è venuto da sorridere e per istinto gli ho fatto una carezza mentre proseguivo verso il bagno. Pensavo si sarebbe sottratto, invece è rimasto. Con quella maglietta grigia e i boxer rossi, i ricci schiacciati dal cuscino solo da una parte, mi è sembrato indifeso come quando era piccolo. Dopo tanti anni mi chiedo ancora da chi abbia preso quel biondo che si porta in testa, così chiaro da sembrare ossigenato, un chiarore che i bambini perdono nei primi anni e a lui invece è rimasto identico. Quando sono tornata a letto la luce della sua stanza era spenta, ma io non ho dormito più. Avevo paura di sognare di nuovo Jimin con quella cosa acquattata nel buio. Quando l’alba ha illuminato la stanza mi sono alzata in silenzio: era tutto a posto, a parte che l’anta era aperta.


 
6

Ho finito di preparare le scatole dei vestiti che mio figlio deve portare via questo pomeriggio. Ho messo solo la stagione necessaria, non è che stia andando via per sempre, è solo per questo anno di università, una casa delle mille che cambierà. La sua rimane questa. Passerà a prendere le sue cose con gli amici, ma stamattina aveva lezione ed è uscito presto. Ho chiesto a Jimin se avesse voglia di stare con me mentre facevo quel lavoro noioso. Lui è abituato alla disciplina della vita degli idol, dormire poco, svegliarsi presto, allenamento e sala prove, shooting, incontri con i fan, interviste, performance, viaggi sballottati di qua e di là, le telecamere sempre addosso. La mia vita deve sembrargli, molto tranquilla a confronto, e un trasloco temporaneo che a me scuote tanto, ai suoi occhi deve essere una cosa ridicola a cui non dare alcuna importanza. Mentre piegavo le felpe abbiamo parlato ancora dello scioglimento e dei suoi progetti futuri, ma sembrava sereno, mi ha raccontato dell’album solista che vuole fare prima di partire per il militare, della sigla che sta scrivendo per una serie tv, delle collaborazioni con altri artisti, della firma dei contratti pubblicitari, tante cose. Possibile che abbia sottovalutato la sua capacità di evoluzione? Forse ha molti più strumenti per affrontare la carriera solista di quelli che gli riconosco io, ma se non fosse così, davvero me lo direbbe? Non gliel’ho chiesto. Bisogna essere sicuro di voler davvero sapere le risposte, quando si fanno le domande. Mi è pesato molto metterlo nell’armadio già nel primo pomeriggio, ma non potevo rischiare che lo vedessero mio figlio e i suoi amici. Sono arrivati verso le sei, hanno preso le scatole e le hanno caricate in macchina in meno di un’ora. Alle sette la casa era di nuovo vuota, appena il tempo di preparare la cena prima del rientro di mio marito dallo studio. Ho sorrise mentre li accompagnavo alla porta, sbrigativi e felici di organizzarsi altrove, ma ci sono rimasta un po’male. Avevo scongelato tre bistecche. Non avevo capito che la nostra ultima cena prima del trasloco sarebbe stata quella di ieri.


 
7

La scora notte mio marito ha voluto fare l’amore. Deve aver creduto che ne avessi bisogno, immagino per rafforzare il concetto che in questa casa una famiglia c’è ancora, che i nostri legami persistono anche se il ragazzo, come lo chiama lui, se ne è andato. Per confortarlo mi sono lasciata confortare, a volte è necessario fare così. È stato un bel pensiero e anche una bella scopata, anche se ho avuto per tutto il tempo la sensazione spiacevole di essere compatita. Credo mi vede come una che non sa accettare la realtà che cambia. Una donna che mette al mondo un figlio e se lo cresce da sola impara a convivere con il cambiamento tutti i giorni della sua vita, ma lui questo lo capisce fino a uno certo punto, è arrivato che noi c’eravamo già. Quando abbiamo finito si è addormentato subito, non ha mai problemi di insonnia, io invece sono rimasta sveglia. Durante il sesso temevo che l’anta dell’armadio fosse aperta e Jimin stesse sentendo. Anche se fosse stato, noi non siamo una coppia scatenata, le pareti della casa sono sottili e abbiamo imparato a essere discreti. Non ci sarà più ragione di esserlo, ma sono contenta che almeno stanotte abbiamo rispettato la tradizione della scopata silenziosa. L’armadio poi l’ho aperto io. Nella penombra della stanza sono rimasta lì davanti, e io e Jimin ci siamo guardati per diversi minuti. Mi sono sentita triste mentre chiudevo l’anta. Non sopporto più che stia lì dentro così tanto ore, la notte non dormo e avrei molte cose di cui parlare con lui. Nella veglia ho contato le ragnatele sul soffitto illuminate dalla luce del lampione che filtrava dalla strada e ho sentito tutti i rintocchi del campanile che batteva le ore della notte. Quando finalmente è arrivato il sole e mi sono alzata per andare a preparare i pancake, l’anta dell’armadio era di nuovo aperta.


 
8

Il sabato mio marito non va in studio e pranziamo dia miei. Anche se non ne avevo alcuna voglia, mi è sembrato il caso di rispettare il rito dell’uscita. Non voglio pensi di non star facendo abbastanza per farmi superare quella che al telefono, quando crede che non lo senta, insiste a chiamare preoccupato “sindrome del nido vuoto”. Le mie amiche gli danno ragione, non perché ce l’abbia, ma per quel misterioso meccanismo di maternage in forza del quale nelle tensioni di relazione i compagni delle amiche finiscono per trovare più comprensione delle amiche stesse. Lo devi capire, mi hanno detto, è disorientato, non ti riconosce più, sei sempre nervosa, scariche su di lui. Prendi le gocce per la menopausa e vagli incontro, poverino, ha già fatto tanto. Quel tanto sarebbe l’avermi sposata nonostante avessi già un figlio ed è per questa grazia, immagino, che il fatto che io stia male importa solo perché fa stare male lui. Prendi le gocce per la menopausa e vagli incontro, poverino, ha già fatto tanto. Non do retta a queste stronzate. Le prendano loro le gocce, vadano loro in analisi per elaborare, si iscrivano a yoga o ai corsi di ikebana, prenotino l’agopunturista, si convertano al buddismo, ingoino tutte le pillole del caso, non le ho mai giudicate per nessuna delle loro anestesie. Io però non farò finta di credere che quello che provo sia una malattia da silenziare per non urtare il contesto. Se anche nessuna di loro accettasse di capire cosa sto vivendo, io comunque non sarei sola: ho Jimin e a volte penso che non mi serva altro per sentirmi compresa. Mentre la macchina corre lungo la Casilina verso la campagna dove vivono i miei, la sua voce dallo stereo riempie la macchina con una dolcezza che è già da sola una cura. Io voglio essere con te / e voglio stare con te / come le stelle brillano splendenti / così tu splendi una volta ancora. “Cos’è questa canzone?” mi ha chiesto mio marito, una mano sul volante e una sul cambio, tanto rilassato da potersi permettere curiosità per il sottofondo. “Una colonna sonora” ho risposto, “roba coreana.” Siamo stati in silenzioso ascolto, in pace fino a destinazione, mentre la voce di vetro soffiato di Jimin viaggiava con noi. Mia madre ci ha fatto trovare il mio piatto preferito, la pasta al forno con le polpettine, e per fortuna l’interrogatorio settimanale è stato monopolizzato da mia sorelle e suo marito, la cui malattia, benché perfettamente risolvibile, era comunque un argomento abbastanza impegnativo da far apparire risibile la condivisione di qualunque altro disagio.
           
“Come state?” mia madre chiede sempre, come se tra le condivisioni matrimoniali ci fosse anche quella dell’umore.
           
“Bene, mamma, adesso siamo soli, è cominciata l’università e ci stiamo riorganizzando.”
           
“Che bello quando crescono” ha detto mio padre pulendo sul pane la lama del coltello sporca di sugo, “ti dà il senso dell’investimento di vita che hai fatto, tutto che si realizza, vedere le vite crescere, non ti senti inutile.”
           
Avrei potuto smentire, ma l’ultimo giorno in cui ho cercato di far capire ai miei qualcosa di me è tramontato nel momento in cui sono andata via di casa venticinque anni fa. Con mia sorella è diverso.
           
“Secondo te mi sento così inutile perché non ho figli di guardare crescere?” mi ha chiesto mentre facevamo i piatti.
           
“Ma come non ne hai, hai sposato un bambinone che non se ne andrà mai di casa, non patirai neanche la sindrome del nido vuoto." Con le mani nella schiuma del lavello abbiamo riso, ma eravamo un dittico strano e pietoso, lei giovane già coi rimpianti e io vecchia con ancora delle pretese. Guardandole il profilo, il viso tonico e il trucco steso bene sulla pelle compatta, non ho provato la solita invidia, anzi ho sentito svanire i dieci anni che quando eravamo più piccole ci hanno impedito di avere una complicità da pari. Al rientro in auto ho rimesso la stessa playlist dell’andata e mio marito, stanco dal cibo e dalle finzioni familiari, non ha fatto domande. Proprio al tuo fianco / io continuo a camminare dovunque tu vada / tu vivrai per sempre in me / respirando profondamente, dentro di me. Quando siamo arrivata a casa l’anta dell’armadio era aperta. A meno di non voler pensare che i mobili prendano iniziative, c’è una sola spiegazione.
 


9

Stanotte sono entrata nell’armadio.
           
Non ho acceso alcuna luce, sapevo come evitare il rumore anche al buio. Come avevo calcolato è ampio, sono giorni che prendo le misure per capire se ci stiamo anche in due. Ho messo una coperta piegata sul fondo per fare il morbido e mi ci sono accucciata sopra, abbracciando il cuscino che tengo di riserva casomai venissero ospiti. Sono stata attenta a mettere la sveglia con la vibrazione in tempo per uscirne prima che mio marito si svegliasse. Jimin era lì contro il fondo dell’armadio e mi sono appoggiata anche io. Ho chiuso entrambe le ante e nel silenzio che si è creato ho sentito il mio cuore battere forte. Non mi è sembrato che facesse più caldo, anzi era come se dentro l’armadio ci fosse una piccola corrente d’aria fresca, un ricambio insospettabile dall’esterno. Volevo vegliare, ma alla fine devo aver trovato la posizione giusta, perché mi ha preso il sonno e ho dormito bene come non succedeva da giorni. Quando il telefono ha vibrato mi sono svegliata malvolentieri e, anche se ero un po’ anchilosata nell’uscire dall’armadio, stranamente mi sentivo risposta. In bagno non ho avuto paura che guardandomi allo specchio potessi vedere qualcuna che non ero più io.
           
“Hai dormito bene?” mi ha chiesto a colazione mio marito.
           
Lo sciroppo d’acero colava sui pancake.
           
“Una favola.”




Murgia, “Cartone animato” in Tre ciotole: Rituali per un anno di crisi (Mondadori, 2023), 104–23