Cacciatori di frodo
Alessandro Cinquegrani
Elisa non ha più paura, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia, almeno, in questo inferno, penso, Elisa non ha più paura, è la quiete della non speranza, penso, ma Elisa non ha più paura, anzi ha coraggio, è grazie al coraggio che Elisa esce ogni mattina prima dell’alba con la sua sottoveste bianca, penso con la mia nuvola di acerbe espiazioni al guinzaglio, e percorre circa dodici chilometri, dodici chilometri, dicono, suppergiù, e si sdraia sul binario morto della ferrovia e aspetta che il treno le faccia cadere la testa giù dall’argine e nel fiume. Elisa, nella quiete della non speranza, non ha più paura, penso, non capita più, al rientro a casa, di trovarla stravolta sudata tremante ansimante, in un abisso di terrore senza uscita, senza alcuna via d’uscita, non capita, più, penso, perché Elisa non ha più paura. Anzi, forse è con sorriso e trepidazione, penso mentre bado a mettere i piedi sulle traversine di legno per non rovinare le scarpe, le uniche scarpe rotte a mia disposizione, forse è con sorriso e trepidazione, col passo che accelera e s’invola che percorre i dodici chilometri del binario morto della ferrovia fino allo spazio dopo la curva e si sdraia e aspetta che il treno le faccia cadere la testa giù dall’argine e nel fiume, penso, o forse è solo la quiete della non speranza in questo inferno di silenzio con o senza cra cra di corvi, comunque, penso, Elisa non ha più paura, non capita più di trovarla, al rientro a casa, stravolta sudata tremante ansimante: attacchi di panico, si curano, dicevano, si curano facilmente ormai, la medicina, dicevano, ha fatto grandi passi avanti anche in questo campo, da quando si è capito che la malattia psicologica è anch’essa una malattia vera, da quando si è capito tutto questo, dicono, penso. Eppure la trovavi ancora seduta nella vasca, dietro l’armadio, accucciata dietro il comò, sdraiata sul letto, la trovavi ancora, al rientro a casa, il bambino di uno o due mesi che piangeva a squarciagola e lei accucciata in un angolo o nella vasca, accucciata, le mani sulle orecchie i capelli sudati e tremori, tremori in tutto il corpo e pallore e respiro che si ferma e la certezza assoluta certezza di stare per morire, trapassare, tutto finito, penso, e senza motivo, penso, senza motivo apparente improvvisamente, terrore solo terrore che ti sale dal petto alla gola al volto, terrore indicibile più grande molto più grande delle tue spalle larghe o strette, il terrore è molto più grande, penso, mentre cammino sul binario morto con la mia nuvola al guinzaglio. Allora ci siamo decisi, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia, ci siamo decisi, abbiamo chiamato ci siamo informati ed eccoci negli States, Chicago, Illinois, e i suoi grattacieli e il lago immenso e piatto e la metropolitana sopraelevata color argento e i luoghi della mafia, Al Capone con la sua mazza da baseball negli Untouchables, eccoci come in una specie di viaggio di nozze, lasciato l’inceneritore, penso, lasciato per la prima volta a persone fidate, penso, ed eccoci dal genio, dal luminare, dall’americano in doppiopetto, l’americano col nodo della cravatta troppo stretto, solo una consulenza, solo una visita, mille dollari per una visita, dico, mille dollari per una visita, e va bene che il dollaro stava crollando già allora, va bene tutto quello che vuoi, ma mille dollari per una visita, penso mentre vado a riprendermi Elisa che aspetta che il treno le faccia cadere la testa giù dall’argine e nel fiume, mille dollari, e poi ci devi aggiungere il viaggio in aereo e l’albergo, ci devi aggiungere, e i ristoranti e tutto il resto e tutto quello che avremmo speso, ma ci siamo decisi, penso, quando al rientro l’ho trovata nella vasca da bagno tremante e sudata e ansimante e terrorizzata, e il bambino che piangeva solo e abbandonato, ci siamo decisi, penso, e fanculo il costo fanculo i mille dollari fanculo l’Alitalia e fanculo l’albergo, cazzo è questo il mio onesto lavoro, il mio pensare onestamente alla mia famiglia, penso, e fanculo se ci spendo un occhio per vedere il luminare con nonsoquante specializzazioni a Harvard Oxford e compagnia, specializzazioni in psichiatria neuropsichiatria psicologia psicanalisi e psicononsocché e chi più ne ha più ne metta, penso, ed eccolo col suo nodo alla cravatta troppo stretto e la camicia bianca così, da americano, come tutti gli americani, penso, è qui, un’ora di visita mille dollari, due milioni di lire, mi viene da dire porcodio, eppure è il mio onesto pensare onestamente alla mia famiglia, penso, mentre percorro il binario morto della ferrovia, e visita il cuore il respiro, una macchina tutta tecnologica che non so che cazzo sia, e un’altra ancora, e chiede e parlano nonsodiché, parlano, ed è molto serio e raccolto, molto professionale il luminare, è molto professionale quando le parla e molto professionale quando la visita e molto professionale quando ci parla, e dopo cinquantacinque minuti di visita il luminare con il nodo alla cravatta troppo stretto apre la bocca e parla: normalmente, dice con la sua faccia seria e il suo nodo alla cravatta, normalmente oggi la sindrome da attacchi di panico si cura molto facilmente, esistono dei farmaci che intervengono sui recettori e impediscono che il panico si diffonda nel corpo e nel cervello, dice col suo nodo alla cravatta e la sua camicia bianca, penso sul binario morto, l’attacco di panico, dice, è come un palloncino pieno d’acqua, dice lo psichiatra poeta col nodo alla cravatta, un palloncino pieno d’acqua che si schianta contro un muro, fa, e l’acqua bang! si diffonde dappertutto, in tutto il corpo improvvisamente e non è più controllabile, non si può più controllare, dice lo psicopoeta, ora, dice schiarendosi la voce un po’ orgoglioso della sua metafora da maestro, ora la psicanalisi può tentare di capire da dove e perché quel palloncino è stato lanciato, tuttavia, dice, la psichiatria è in grado di intervenire immediatamente sul punto in cui il palloncino si schianta contro il muro, e attraverso alcuni farmaci noi siamo in grado di mettere una sorta di... ehm... ammortizzatore, dice, che fa in modo che il palloncino non esploda, penso sul binario morto, non si può impedire che il palloncino venga lanciato ma si può impedire che scoppi al contatto col muro, dice col nodo alla cravatta troppo stretto, non è propriamente la cura, ma il sintomo scompare, dice. Questo è quello che accade solitamente, ecco, penso io, ci siamo, eppure, continua, ognuno di noi è diverso, per ognuno di noi il rapporto tra il nostro cervello, le nostre emozioni e il nostro corpo, dice, è diverso, del resto, dice con la sua camicia bianca il luminare psicopoeta dei miei stivali, è questo il bello della vita, no?, chiede e io comincio a rompermi i coglioni, penso sul binario morto, comincio a rompermi i coglioni di questa psicofilosofia dei miei stivali, se così non fosse saremmo dei robot, dice con un sorrisino troppo stretto come il nodo alla cravatta, e sembra esitare, rigirare la frittata al di fuori della parte imparata a memoria del palloncino pieno d’acqua, sembra rigirare la frittata e annaspare, ora veniamo al punto, fa, appunto, penso io, veniamo al punto senza tanto girarci attorno, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia per andare a riprendermi mia moglie che aspetta che il treno le faccia cadere la testa giù dall’argine e nel fiume, veniamo al punto, ripete il luminare, ebbene in questo caso sembra che qualcosa si opponga a questo semplice procedimento, appunto, penso io, sembra che qualcosa si opponga a questo semplice procedimento, lo so anch’io questo, penso, il problema è che cosa e perché e come vincere queste resistenze del cazzo, è come se ci fossero delle strane resistenze, continua lui composto in doppiopetto, delle strane resistenze, ripete, che rigettano l’effetto dei farmaci. Punto e tace, come se questa fosse la sua diagnosi, come se noi ci fossimo fatti un intero oceano e avessimo pagato mille fottutissimi dollari per sentirci dire questa roba, eh no, noi non ci muoviamo di qua psicononsoché dei miei coglioni, io non muovo di qui finché non mi dici qualcos’altro, non dico niente, non dico una parola, ma non mi muovo di qua neanche a calci, se pensi di vedermi alzare il culo da questa sedia e tornarmene a casa così come sono venuto con mille dollari in meno più le spese, più tutte le spese per sentirmi dire questo, ti sbagli di grosso, fermo, impassibile, non mi alzo. Voi vi chiederete perché, dice allora, bravo lo psicocoglione del cazzo, vi chiederete perché... è come se la signora non volesse guarire, c’è qualcosa nel profondo della sua psiche che vuole, no, vuole è una parola troppo grossa, ma insomma che non combatte con la dovuta forza questa patologia, dice pensoso, come se questa patologia, questi attacchi di panico le permettessero di sprigionare una forza un sentimento un grido altrimenti compresso dentro di lei... una denuncia, è come una denuncia al mondo di qualcosa che non riusciamo a interpretare, dice, qualcosa che non riusciamo a interpretare, penso io, una denuncia, aggiungo nei miei pensieri, di qualcosa che non riusciamo a interpretare, ha detto, penso, penso sul binario morto, poi continua: è difficile da accettare, me ne rendo conto, dice, però ci sono delle logiche che sfuggono alla logica, dice con un certo narcisistico orgoglio per aver trovato la formula da maestro psicofilosofo dei miei coglioni, la formula da luminare psicopoeta del cazzo, delle logiche che sfuggono alla logica, dice, delle logiche che sfuggono alla logica, penso, delle logiche che sfuggono alla logica, penso mentre ci alziamo e ce ne andiamo, delle logiche che sfuggono alla logica, e non è una logica che sfugge alla logica partire da un paesino del florido Nordest, andare a prendere l’aereo 7314 Iberia a Venezia Marco Polo, fare scalo a Madrid e imbarcarsi per Chicago, Illinois, farsi nonsoquante ore di aereo, farsi una coda infinita all’aeroporto perché i facciadimerda mettono tutti i gate, proprio tutti i gate a disposizione dei cittadini americani, dei cittadini di serie A, dico io, tutti i gate che gli altri tanto aspettano i loro comodi, e quando hanno finito i loro comodi, allora te ne puoi andare in albergo, allora, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia con la mia nuvola al guinzaglio, e solo allora puoi andare a spendere mille dollari dico mille non uno di più non uno di meno, per sentirti dire quello che sai già, per sentirti dire che porcodio tua moglie è affetta da sindrome da attacchi di panico e non vuole guarire, bella forza, tua moglie è affetta da sindrome da attacchi di panico e non vuole guarire e non si può guarire e non c’è niente da fare ed è così che va il mondo e sorrisi del cazzo e cravatte troppo strette e camiciole bianche e porcodio e porcamadonna.
PA Syndrome—Sindrome da attacchi di panico, penso sul binario morto con la mia nuvola di astratte espiazioni al guinzaglio in questa mattina d’aria pesante di nuvole nere all’orizzonte e di vento e di Promenade di Marc Chagall e di voli di rondini troppo bassi, sindrome da attacchi di panico, penso mentre bado a mettere i piedi sulle traversine per non rovinare le scarpe sui sassi cubici e spigolosi mentre vado a riprendermi mia moglie che aspetta che il treno le faccia cadere la testa giù dall’argine e nel fiume, sindrome da attacchi di panico con tanto di certificato da esibire al commissariato per evitarti il processo, sindrome da attacchi di panico, ecco dov’era la signora Elisa tremante e ansimante e sudata quando Daniele Dalla Libera, suo figlio, di mesi diciotto, presumibilmente spinto da curiosità infantile, si arrampicava sulla sedia nel terrazzino sul tetto e da lì pericolosamente si sporgeva precipitando così a terra da circa otto metri sul cemento riportando gravissime ferite. Al rientro a casa dal lavoro suo padre Augusto Dalla Libera, dopo aver chiamato ri- petutamente sua moglie e senza averne avuta risposta, si affannava a cercarla in tutte le stanze della casa, trovandola infine in camera da letto accucciata dietro il comò, tremante e ansimante, e pallida e sudata, lo sguardo a terra terrorizzato, interrogata dal suddetto Augusto Dalla Libera su dove fosse il figlio Daniele, la donna non rispondeva, riusciva soltanto a scuotere la testa in un gesto interpretato dal marito come un «non lo so! non lo so!». Il suddetto sig. Augusto Dalla Libera si proponeva allora di cercare il proprio figlio Daniele e ripartiva da lì, vista immediatamente la porta finestra della camera spalancata si precipitava sul terrazzino dove c’era un piccolo tavolino con due sedie e, intuito l’accaduto, si sporgeva dal parapetto da dove vedeva il corpo del piccolo Daniele. Terrorizzato, senza nemmeno riuscire a gridare, il suddetto sig. Augusto Dalla Libera correva giù per le scale e si ritrovava in breve accanto al corpicino insanguinato del piccolo Daniele, e verificava immediatamente la presenza di un debole respiro nel corpo del bambino, telefonava senza perdere tempo al 118 col telefono cellulare che aveva in tasca, poiché—dichiara—non poteva allontanarsi nemmeno un secondo da suo figlio, e al suo capezzale attendeva trepidante l’arrivo dell’ambulanza, penso mentre cammino sul binario morto della ferrovia, al sopraggiungere dei soccorsi tuttavia la situazione appariva da subito disperata, il bambino veniva caricato in ambulanza e condotto immediatamente all’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso, dove si constatava un ampio ematoma nella testa, che cresceva progressivamente, oltre ad altre ferite in tutto il corpo, e tuttavia il bambino era in condizioni troppo precarie per poter tentare un’operazione e difatti dopo circa mezz’ora dall’arrivo in ospedale il piccolo Daniele Dalla Libera spirava, come risulta dal referto medico allegato. Interrogato sulla possibilità del bambino di mesi diciotto di salire autonomamente sulla sedia e sporgersi poi dal parapetto, il sig. Augusto Dalla Libera risponde: «Sì, è era un bambino molto precoce» (Interlandi, non faccia errori così banali, possibile che non sappia scrivere quello che le detto, cerchiamo di avere rispetto per il dolore di questo pover’uomo).
È la prima volta che ripenso a quel giorno, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia con la mia nuvola di acerbe espiazioni al guinzaglio, è la prima volta che ripenso a quel giorno tutto da capo dall’inizio alla fine, penso, prima non c’ero mai riuscito, e adesso mentre percorro il binario morto della ferrovia per l’ennesima volta e per l’ennesima volta vado a riprendermi mia moglie che aspetta che il treno le faccia cadere la testa giù dall’argine e nel fiume ci sono riuscito a ripensare a quel giorno da capo, e a rivedere tutto e ripensare a tutto, di quel giorno. E di tutto, di quel giorno, di tutto l’abisso di quel giorno, ripenso alla fine dell’interrogatorio, che non è un interrogatorio, non si preoccupi è solo una dichiarazione che deve rilasciare, una piccola cosa che, lo sappiamo, le costa molta fatica in questo momento di dolore, le costa molta fatica, ma cercheremo di fare presto, non si preoccupi, alla fine di quell’interrogatorio ripenso, penso con la mia nuvola al guinzaglio, quando sto quasi per alzarmi e il commissario siciliano coi baffi, quel commissario che ti aspetti, esattamente quello che ti aspetti dice abbiamo finito, e io sto quasi per alzarmi e andare a cullarmi il mio dolore da solo, finalmente da solo a cullarmi il mio dolore, che il vice, due occhi duri e taglienti, forse padovano dall’accento, sulla trentina o poco più, coi suoi occhietti duri e taglienti mi guarda e fa: Il bambino, a diciotto mesi, era in grado di salire sulla sedia e da lì sporgersi sul parapetto, secondo lei?, dice così, il bambino, a diciotto mesi, e mi guarda coi suoi occhietti duri e taglienti, mentre io stavo quasi per andarmene, stavo quasi per andare a cullarmi da solo il mio dolore, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia, ma io non mi faccio trovare impreparato, io non mi faccio mai trovare impreparato quando faccio il mio onesto lavoro, quando devo badare onestamente alla mia famiglia, sì, dico, e aggiungo: Era un bambino molto precoce. Daniele, penso mentre bado a mettere i piedi sulle traversine del binario morto della ferrovia, il mio piccolo Daniele era un bambino molto precoce, penso, a dieci mesi già camminava, a undici diceva già un certo numero di parole, Daniele, a diciassette mesi si manteneva pulito, il mio piccolo Daniele era un bambino molto precoce, penso con la mia nuvola al guinzaglio. Che non l’avevo mai visto salire da solo su una sedia, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia e vado a riprendermi mia moglie che aspetta che il treno le faccia cadere la testa giù dall’argine e nel fiume, che non l’avevo mai visto salire da solo su una sedia, penso, io, non l’avevo mai visto salire da solo su una sedia, penso, mai visto, penso mentre percorro il binario morto, io non l’avevo mai visto salire da solo su una sedia, penso, mai, mai una volta, penso, se io torno indietro col pensiero, se penso a tutte le sere tutte le cene tutte le volte io, penso, non l’avevo mai visto salire una sola volta da solo su una sedia, io, penso, mai una maledettissima volta che io l’abbia visto salire da solo su una sedia, penso, ma io questo non l’ho detto, io ho fatto solo il mio onesto lavoro, il mio onesto badare onestamente alla mia famiglia, penso, ma io non una volta che l’abbia visto salire da solo su quella dannatissima sedia, non una volta che sia una, non l’ho visto, cazzo, io non l’ho visto una volta, non una volta salire da solo su una sedia, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia, e penso agli occhietti duri e taglienti del vice, un padovano, penso, che sapeva fare il suo sporco lavoro sapeva fare, e io, mai una volta che l’abbia visto salire da solo su quella maledettissima sedia, cazzo, mai una volta, se l’avessi visto una volta, dico, una sola volta arrampicarsi su una sedia, una sola volta dico, ma niente, non una volta non una sola volta che io ricordi, penso, non una sola volta che io ricordi, penso, era un bambino molto precoce, ho detto quel giorno, ed era un bambino molto precoce ma io, io non l’ho visto una sola volta salire su quella dannatissima sedia, io, penso, non ci posso pensare, e non ci dovevo pensare, io non posso togliermi dalla testa questo pensiero che io non l’ho mai visto salire da solo su una sedia, io non ci dovevo pensare, non avrei dovuto pensarci perché adesso non posso togliermi dalla testa che io... Urla, schiamazzi.
PA Syndrome—Sindrome da attacchi di panico, penso sul binario morto con la mia nuvola di astratte espiazioni al guinzaglio in questa mattina d’aria pesante di nuvole nere all’orizzonte e di vento e di Promenade di Marc Chagall e di voli di rondini troppo bassi, sindrome da attacchi di panico, penso mentre bado a mettere i piedi sulle traversine per non rovinare le scarpe sui sassi cubici e spigolosi mentre vado a riprendermi mia moglie che aspetta che il treno le faccia cadere la testa giù dall’argine e nel fiume, sindrome da attacchi di panico con tanto di certificato da esibire al commissariato per evitarti il processo, sindrome da attacchi di panico, ecco dov’era la signora Elisa tremante e ansimante e sudata quando Daniele Dalla Libera, suo figlio, di mesi diciotto, presumibilmente spinto da curiosità infantile, si arrampicava sulla sedia nel terrazzino sul tetto e da lì pericolosamente si sporgeva precipitando così a terra da circa otto metri sul cemento riportando gravissime ferite. Al rientro a casa dal lavoro suo padre Augusto Dalla Libera, dopo aver chiamato ri- petutamente sua moglie e senza averne avuta risposta, si affannava a cercarla in tutte le stanze della casa, trovandola infine in camera da letto accucciata dietro il comò, tremante e ansimante, e pallida e sudata, lo sguardo a terra terrorizzato, interrogata dal suddetto Augusto Dalla Libera su dove fosse il figlio Daniele, la donna non rispondeva, riusciva soltanto a scuotere la testa in un gesto interpretato dal marito come un «non lo so! non lo so!». Il suddetto sig. Augusto Dalla Libera si proponeva allora di cercare il proprio figlio Daniele e ripartiva da lì, vista immediatamente la porta finestra della camera spalancata si precipitava sul terrazzino dove c’era un piccolo tavolino con due sedie e, intuito l’accaduto, si sporgeva dal parapetto da dove vedeva il corpo del piccolo Daniele. Terrorizzato, senza nemmeno riuscire a gridare, il suddetto sig. Augusto Dalla Libera correva giù per le scale e si ritrovava in breve accanto al corpicino insanguinato del piccolo Daniele, e verificava immediatamente la presenza di un debole respiro nel corpo del bambino, telefonava senza perdere tempo al 118 col telefono cellulare che aveva in tasca, poiché—dichiara—non poteva allontanarsi nemmeno un secondo da suo figlio, e al suo capezzale attendeva trepidante l’arrivo dell’ambulanza, penso mentre cammino sul binario morto della ferrovia, al sopraggiungere dei soccorsi tuttavia la situazione appariva da subito disperata, il bambino veniva caricato in ambulanza e condotto immediatamente all’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso, dove si constatava un ampio ematoma nella testa, che cresceva progressivamente, oltre ad altre ferite in tutto il corpo, e tuttavia il bambino era in condizioni troppo precarie per poter tentare un’operazione e difatti dopo circa mezz’ora dall’arrivo in ospedale il piccolo Daniele Dalla Libera spirava, come risulta dal referto medico allegato. Interrogato sulla possibilità del bambino di mesi diciotto di salire autonomamente sulla sedia e sporgersi poi dal parapetto, il sig. Augusto Dalla Libera risponde: «Sì, è era un bambino molto precoce» (Interlandi, non faccia errori così banali, possibile che non sappia scrivere quello che le detto, cerchiamo di avere rispetto per il dolore di questo pover’uomo).
È la prima volta che ripenso a quel giorno, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia con la mia nuvola di acerbe espiazioni al guinzaglio, è la prima volta che ripenso a quel giorno tutto da capo dall’inizio alla fine, penso, prima non c’ero mai riuscito, e adesso mentre percorro il binario morto della ferrovia per l’ennesima volta e per l’ennesima volta vado a riprendermi mia moglie che aspetta che il treno le faccia cadere la testa giù dall’argine e nel fiume ci sono riuscito a ripensare a quel giorno da capo, e a rivedere tutto e ripensare a tutto, di quel giorno. E di tutto, di quel giorno, di tutto l’abisso di quel giorno, ripenso alla fine dell’interrogatorio, che non è un interrogatorio, non si preoccupi è solo una dichiarazione che deve rilasciare, una piccola cosa che, lo sappiamo, le costa molta fatica in questo momento di dolore, le costa molta fatica, ma cercheremo di fare presto, non si preoccupi, alla fine di quell’interrogatorio ripenso, penso con la mia nuvola al guinzaglio, quando sto quasi per alzarmi e il commissario siciliano coi baffi, quel commissario che ti aspetti, esattamente quello che ti aspetti dice abbiamo finito, e io sto quasi per alzarmi e andare a cullarmi il mio dolore da solo, finalmente da solo a cullarmi il mio dolore, che il vice, due occhi duri e taglienti, forse padovano dall’accento, sulla trentina o poco più, coi suoi occhietti duri e taglienti mi guarda e fa: Il bambino, a diciotto mesi, era in grado di salire sulla sedia e da lì sporgersi sul parapetto, secondo lei?, dice così, il bambino, a diciotto mesi, e mi guarda coi suoi occhietti duri e taglienti, mentre io stavo quasi per andarmene, stavo quasi per andare a cullarmi da solo il mio dolore, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia, ma io non mi faccio trovare impreparato, io non mi faccio mai trovare impreparato quando faccio il mio onesto lavoro, quando devo badare onestamente alla mia famiglia, sì, dico, e aggiungo: Era un bambino molto precoce. Daniele, penso mentre bado a mettere i piedi sulle traversine del binario morto della ferrovia, il mio piccolo Daniele era un bambino molto precoce, penso, a dieci mesi già camminava, a undici diceva già un certo numero di parole, Daniele, a diciassette mesi si manteneva pulito, il mio piccolo Daniele era un bambino molto precoce, penso con la mia nuvola al guinzaglio. Che non l’avevo mai visto salire da solo su una sedia, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia e vado a riprendermi mia moglie che aspetta che il treno le faccia cadere la testa giù dall’argine e nel fiume, che non l’avevo mai visto salire da solo su una sedia, penso, io, non l’avevo mai visto salire da solo su una sedia, penso, mai visto, penso mentre percorro il binario morto, io non l’avevo mai visto salire da solo su una sedia, penso, mai, mai una volta, penso, se io torno indietro col pensiero, se penso a tutte le sere tutte le cene tutte le volte io, penso, non l’avevo mai visto salire una sola volta da solo su una sedia, io, penso, mai una maledettissima volta che io l’abbia visto salire da solo su una sedia, penso, ma io questo non l’ho detto, io ho fatto solo il mio onesto lavoro, il mio onesto badare onestamente alla mia famiglia, penso, ma io non una volta che l’abbia visto salire da solo su quella dannatissima sedia, non una volta che sia una, non l’ho visto, cazzo, io non l’ho visto una volta, non una volta salire da solo su una sedia, penso mentre percorro il binario morto della ferrovia, e penso agli occhietti duri e taglienti del vice, un padovano, penso, che sapeva fare il suo sporco lavoro sapeva fare, e io, mai una volta che l’abbia visto salire da solo su quella maledettissima sedia, cazzo, mai una volta, se l’avessi visto una volta, dico, una sola volta arrampicarsi su una sedia, una sola volta dico, ma niente, non una volta non una sola volta che io ricordi, penso, non una sola volta che io ricordi, penso, era un bambino molto precoce, ho detto quel giorno, ed era un bambino molto precoce ma io, io non l’ho visto una sola volta salire su quella dannatissima sedia, io, penso, non ci posso pensare, e non ci dovevo pensare, io non posso togliermi dalla testa questo pensiero che io non l’ho mai visto salire da solo su una sedia, io non ci dovevo pensare, non avrei dovuto pensarci perché adesso non posso togliermi dalla testa che io... Urla, schiamazzi.